L’attacco di Israele all’Iran segna l’ennesimo passo verso una eruttiva globalizzazione dell’instabilità. Attenzione: se fosse stato l’Iran a colpire per primo, la nostra argomentazione non cambierebbe di una virgola, dal momento che siamo dinanzi a un fenomeno che affonda le sue radici lontano nel tempo.
Si tratta di una destabilizzazione generalizzata che discende non tanto da qualche piano segreto o complotto mondiale – lasciamo queste fantasie ai teorici del caos totale – quanto piuttosto da un’involuzione di un ordine internazionale in declino, o comunque in ebollizione, da almeno trent'anni (diciamo post Guerra fredda). E quando l’ordine vacilla, il richiamo del nazionalismo si fa più forte. Anzi, diventa irresistibile. Oggi lo si chiama sovranismo ma si tratta della stessa famiglia di apportatori di sciagure.
Quel che osserviamo non è il ritorno dei nazionalismi classici, ma l’ascesa di nuovi nazionalismi, più emotivi che ideologici, più viscerali che dottrinali, scollegati da visioni organiche dello Stato-nazione liberale ottocentesco, e più simili a esplosioni identitarie di bassa lega che rinviano al Novecento totalitario.
Il caso Trump è emblematico: il presidente americano incarna una forma di sovranismo disperato che rinnega l’universalismo liberale, non in nome di un pensiero compiuto, ma per puro istinto di conservazione simbolica del “vero americano”, bianco, produttore e sospettoso verso tutto ciò che viene da fuori, siano cinesi o migranti messicani.
Alla base della volontà di potenza di Trump c’è il culto dell' americanismo dozzinale. Lo stesso culto del banalissimo “vero tedesco” che animò la volontà di potenza di Hitler. Ma vogliamo parlare del "vero francese" di Pétain, del "vero italiano" di Mussolini, del "vero spagnolo" di Franco?
La regoletta è facile facile: prima si parla di radici, poi di identità, dopo di che si mette mano alla pistola, per fare fuori quelli che non sono "veri americani", "veri tedeschi", eccetera, eccetera,
Quanto a Israele l’attacco diretto contro l’Iran non è soltanto una mossa tattica contro un avversario strategico. È anche, e forse soprattutto, un segnale interno: mostrare al mondo – ma soprattutto agli israeliani – che lo Stato ebraico non arretra, non si piega, e soprattutto non chiede il permesso. È il nazionalismo della sopravvivenza, alimentato da poco meno di un secolo di guerre, traumi e assedi. Ma che oggi rischia di trasformarsi in un volontarismo aggressivo, un decisionismo armato, praticato da un uomo solo al comando, in nome della “sicurezza assoluta” e dell'implicita difesa dei "veri ebrei".
I nuovi nazionalismi, insomma, non nascono nel vuoto ideologico, ma dalla crisi di un liberalismo incapace di offrire risposte politiche che non siano puri e semplici aggiustamenti contabili. La gente, confusa da una realtà sempre più complessa, cerca inevitabilmente rifugio nei simboli forti: la nazione, il leader, il nemico. Come se bastasse sventolare una bandiera per rimettere ordine nel disordine globale. Per capirsi: stupidità globale contro disordine globale. Detto altrimenti: come non cavare un ragno dal buco.
Qui meriterebbe una riflessione più approfondita l’aggressione russa all’Ucraina, un mix di imperialismo e nazionalismo, attraverso il quale Putin cerca di tenere insieme il suo traballante regime. Esiste, soprattutto nei regimi autocratici, una specie di legge di moltiplicazione degli appetiti, che ne favorisce la carica espansionista, a prescindere dalle risorse disponibili. Il riflesso carnivoro ha la meglio su tutto: i desideri non invecchiano, soprattutto quelli metapolitici per così dire. Il che rende la Russia, che alcuni osservatori descrivono alla frutta, come pericolosa a prescindere. Diciamo pure una mina vagante.
Qual è il cuore del problema? Il mondo appare fuori controllo non perché sia esploso il caos in senso assoluto, ma perché sono saltati i vecchi meccanismi di controllo. Le élite globali non guidano più, ma rincorrono. I trattati sono diventati pezzi di carta da strappare a piacimento. Le Nazioni Unite, un teatro di retorica impotente. La tecnica – una volta motore del progresso – è divenuta un labirinto in cui il cittadino si perde, e la politica non sa più orientarsi.
Il risultato? Una proliferazione di nazionalismi non coordinati, spesso antagonisti, che si muovono come molecole impazzite in un contenitore di vetro sempre più sottile e fragile. Ecco perché l’attacco di Israele all’Iran, o le parole incendiarie di Trump, o la perfida protervia di Putin, non sono episodi isolati, ma segnali convergenti. Il mondo non è più multipolare: è multipolare e centrifugo, senza una bussola politica o strategica.
C’è chi, ingenuamente, invoca un nuovo ordine mondiale, magari “multipolare e centripeto”. Ma come si può cooperare nella costruzione di qualcosa di stabile quando le fondamenta stesse – la fiducia, la legalità, il diritto internazionale – sono percepite come strumenti del nemico? L’illusione di poter rimettere in piedi un mondo ordinato senza ricostruire prima la liberale cultura della responsabilità è ciò che rende questo presente tanto pericoloso.
E qui ci fermiamo, per non farla troppo lunga dal momento che altri esempi potrebbero essere portati a proposito dell’Asia del Sud-Est, l’Africa o l’America Latina, dove fenomeni simili stanno emergendo in forme diverse.
Concludendo: l’ascesa dei nuovi nazionalismi non è una patologia momentanea, ma il sintomo di una crisi sistemica. Forse, l’unica via d’uscita passa attraverso il ritorno alla politica nel senso più alto, ma normale, della prudenza classica, dell’arte della misura.
Si dirà che la montagna ha partorito il topolino. Touché.
In effetti non offriamo linee concrete o esempi circa il significato di una politica della misura, né di come affrontare le reali difficoltà di un ritorno a tale prudenza. Né prendiamo in considerazione segnali contrari, ad esempio, resistenze civiche, forme di solidarietà transnazionale, o leadership più equilibrate. Fenomeni che a dire il vero riteniamo almeno al momento poco incisivi.
Un quadro troppo cupo? E sia. Del resto in un mondo dove l’emotività detta legge, e il click vale più del ragionamento, chi ha ancora voglia di leggere, ascoltare, agire?
Perciò per oggi, scoraggiati, ci fermiamo qui.
Carlo Gambescia

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