L’Europa “buonista”, secondo il lessico giornalistico, ha ormai fatto propria la parola trattativa. Anche sotto le bombe, come si legge a proposito dell’Iran. La stessa parola magica viene estesa alla guerra in Ucraina e alle altre guerre sparse nel mondo.
Nelle facoltà di scienze politiche oggi si studia il peacekeeping (il come conservare la pace). Mosca, Pareto, Michels, di lassù, si faranno grasse risate.
Definizione. Trattare nel senso di discutere di qualcosa con qualcuno per raggiungere un accordo. Trattare, si dice, non è guerreggiare e la trattativa, si chiosa cinguettando, è il contrario della guerra.
Ecco perciò la regoletta aurea, dicono: smettere di spararsi per sedersi intorno a un tavolo.
Le cose in realtà non sono così semplici.
In primo luogo, per trattare si deve essere in due: parlare di trattative mentre il nemico (cioè uno dei contendenti) continua a sparare è inutile. E qui si torna al famoso cessate il fuoco, così difficile da accettare, soprattutto dalla parte che sta per vincere o che si sente vicina alla vittoria.
In secondo luogo, la trattativa se autentica, deve essere priva, tra le parti, di riserve mentali. Si tratta perché si vuole trattare e non perché si vuole perdere tempo ( e guadagnare terreno) formulando richieste impossibili o fuori contesto.
In terzo luogo, la trattativa, per le due ragioni appena ricordate, può non partire o fallire. Di conseguenza risulta scontato il ritorno della guerra.
Insomma trattare non basta. Serve la volontà di trattare, se non c’è quella, trattare resta una parola vuota e ingannevole.
Alla luce delle attuali dinamiche, l’ipotesi di una trattativa sul nucleare iraniano favorita da una mediazione europea appare per quello che è: un esercizio di stallo. È evidente che non si sta realmente costruendo un percorso di soluzione, ma semplicemente guadagnando tempo. E non è detto che lo stiano guadagnando tutti nella stessa misura.
Si rifletta. Perché fingere che l’Iran, teocrazia armata di cinismo politico-diplomatico, sia un interlocutore “come gli altri”? La retorica dei “diritti all’uso civile del nucleare” diventa, in simili mani, la maschera buona per ogni ambiguità strategica. Si continua a parlare di trattative, tavoli comuni, garanzie multilaterali. Ma quali garanzie? Quelle di un regime che ha fatto della manipolazione l’arte regina e del martirio una leva geopolitica?
Il problema non è tecnico, bensì politico e culturale. Ecco l’errore: credere che sia possibile disinnescare l’ideologia attraverso il protocollo. Come se il linguaggio del diritto potesse convertire un progetto di potenza, fondato sulla religione politicizzata, in volontà di sviluppo pacifico. Come dicevamo è una pia illusione quella di pensare che ogni conflitto si possa “negoziare”, ogni minaccia “contenere”, ogni volontà di dominio “regolare”. Come se bastasse dire IAEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) per dormire sonni tranquilli.
Il commercio, cosa verissima, tiene lontane le guerre, ma quando l’interlocutore agisce in malafede, ogni presunto equilibrio si rivela fragile, ogni accordo un mero espediente tattico. In questi casi, il commercio diventa uno strumento tra gli altri, piegato agli obiettivi di dominio, non un argine alla violenza. È proprio la malafede, cioè la distanza tra ciò che si dichiara e ciò che si persegue realmente, a rendere inefficace il linguaggio dei trattati, delle risoluzioni, delle conferenze.
Del resto, non è forse sempre l’Iran che da decenni alimenta reti paramilitari in tutto il Medio Oriente? Lo stesso che oscilla, con disinvoltura teatrale, tra ghirigori diplomatici e minacce velate o meno? Parlare oggi di “diritto all’arricchimento dell’uranio” in mano iraniana è come discutere del diritto alla libertà di stampa in Corea del Nord. È un concetto mal posto.
L’errore strategico dell’Occidente è questo: credere che le trattative funzionino anche quando la parte opposta non condivide neppure in minima parte il quadro valoriale su cui quelle trattative si basano. Un dialogo tra sordi, nel migliore dei casi. Un gioco delle tre carte, nel peggiore.
Insomma, trattare con l’Iran sul nucleare, “in nome della pace”, significa ignorare che la pace, per certi regimi, è solo l’intervallo fra due offensive (il che dal punto di vista metapolitico non è neppure sbagliato). E a furia di dialogare, rischiamo di risvegliarci un giorno sotto l’ombra – finora solo metaforica – di un fungo atomico mediorientale. A quel punto altro che trattati da firmare e tavoli da convocare...
Inoltre la storia insegna una regola elementare, quasi brutale nella sua semplicità: per trattare, si deve prima vincere. E vincere significa imporsi, piegare l’altro alla propria volontà, costringerlo a considerare il negoziato non come opzione, ma come necessità. Solo allora può iniziare il dialogo. Ma prima viene il suono degli stivali, non il tintinnio delle posate alla tavola imbandita delle conferenze.
Si badi, la logica dei negoziati preventivi o delle esperienze in cui la diplomazia ha avuto successo prima della guerra possono valere per i conflitti tra piccoli stati ma fino a un certo punto: si pensi alla Guerra del Chaco, conflitto armato sanguinosissimo, per un pezzo di deserto, tra Bolivia e Paraguay (1932-1935), ma anche ai conflitti intrafricani dopo la decolonizzazione. Di regola chi ha la forza è sempre pronto a farla valere. In qualunque momento, prima, durante, dopo. La trattativa è una pennellata di vernice...
Sono cose che Israele, in particolare “a conduzione” Netanyahu, conosce bene. Forse troppo. Che Trump invece fraintende, preferendo le pericolose fanfaronate da immobiliarista (almeno per ora). Diciamo che il primo fa sul serio, in modo arruffato, il secondo gioca con il fuoco, di armamenti nuovi di zecca che non conosce fino in fondo.
In sintesi: l’Iran teocratico va prima piegato. E con una certa logica organizzativa militare (che al momento difetta). L’Europa invece non deve mettersi in mezzo.
È così che funzionano le cose, da Tucidide a Clausewitz, passando per Yalta e Dayton: Hitler fu piegato, come lo fu nel suo piccolo, Milošević, che dopo Dayton, fu lasciato al suo posto ma per poco. I trattati, i compromessi, i grandi “momenti diplomatici” della storia non nascono da una comune ricerca della verità: la storia non è un manuale di filosofia morale. Nascono invece da un equilibrio di potere costruito con la forza e solo dopo nobilitato con la parola.
Eppure sembra che si voglia invertire l’ordine naturale delle cose metapolitiche: si vuole trattare prima di vincere. Si cerca il compromesso prima che esista uno squilibrio reale in proprio favore. Si invoca la diplomazia mentre si subisce, non mentre si comanda. È il trionfo dell’ingenuità o, peggio, dell’ipocrisia.
Ma, attenzione, vincere non è sinonimo di umiliare. Sta poi all’intelligenza del vincitore, al suo senso della misura, non approfittare della vittoria, non trasformare la pace in vendetta mascherata. La storia, anche qui, parla chiaro: il congresso di Vienna (1814-1815) favorì quasi un secolo di pace. Per contro Versailles (1919) insegnò molto poco a chi poi si illuse, nel 1938, di fermare Hitler con un foglio di carta sventolato al mondo di ritorno da Monaco.
Insomma, la forza è la condizione del negoziato, non la sua negazione. Chi confonde la diplomazia con la psicoterapia non tratta: si arrende. E non costruisce la pace, ma legittima la propria sconfitta.
Carlo Gambescia

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