Può avere una sua giustificazione, diciamo tecnica, la sentenza del TAR che annulla il Daspo, perché esteso fuori contesto (una manifestazione politica, non sportiva) ad alcuni esponenti di CasaPound accusati di aver eseguito il saluto romano durante una commemorazione pubblica, in ricordo dei tragici fatti di Acca Larenzia.
Però al posto di CasaPound non canteremmo vittoria. Infatti resta in piedi la richiesta della Procura di Roma di rinvio a giudizio per 31 persone, tutte appartenenti a CasaPound, che effettuarono il saluto romano sempre in una occasione simile. Si contesta la violazione delle leggi Mancino e Scelba.
Del resto qual è la questione di fondo? La giurisprudenza, amministrativa o meno, può rifugiarsi nella neutralità apparente del diritto per eludere il giudizio sul senso profondo dei simboli politici?
Al netto del fatto, sottolineato dal TAR, che un evento sportivo è una cosa, uno politico un’altra, il saluto romano non è un gesto neutro. Non è un inchino al passato remoto. È un gesto che rinvia a un’ideologia precisa, eversiva dei valori costituzionali e liberali, che ha prodotto una dittatura, una guerra, e leggi razziali. E che, per quanto venga rivestita di nostalgia, continua a trasmettere un messaggio di rifiuto dell’ordine liberal-democratico.
Come sappiamo la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, vieta "la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista". Tuttavia con sentenza a Sezioni Unite della Cassazione, n. 16153, depositata il 17 aprile 2024, si stabilisce: che “la risposta alla ‘chiamata del presente’ e il cosiddetto ‘saluto romano’ integrano il delitto previsto dall’art. 5 della legge Scelba ove idonei ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista… e possono altresì configurare il delitto previsto dall’art. 2 della legge Mancino” . “Ove idonei”, nel senso di una idoneità collegata al pericolo concreto di ricostituzione, eccetera, eccetera. Quindi se pericolo non c'è, il braccio può essere levato verso l'alto a volontà. E in ogni caso sarà il giudice a decidere...
E qui il punto si fa delicatissimo. Il TAR del Lazio, in quanto tribunale amministrativo, non poteva occuparsi della questione. Però si intuisce, pur essendo difficile fissare il confine tra pregiudizio e neutralità del diritto, che i giudici, nonostante non fossero chiamati a pronunciarsi sul punto, hanno ritenuto che i gesti contestati non integrassero una minaccia concreta all’ordine pubblico, né configurassero una manifestazione apologetica. Mostrandosi così più che lieti di poter ridurre il tutto a un’invasione di campo dei poteri amministrativi: dallo sportivo al politico. Invasione, se non erriamo, che introduce un problema di proporzionalità della pena inflitta.
Certo, ripetiamo, si tratta di un tribunale amministrativo. Che ha precisi limiti. Quindi la sentenza è formalmente inattaccabile. Però, come si può isolare un gesto dal suo contesto? Davvero il diritto – parliamo del diritto in generale – può permettersi di ignorare il simbolico, la retorica del corpo, l’intenzione espressiva che il saluto romano inevitabilmente veicola?
Certo, sappiamo di sollevare le grandi questioni della filosofia del diritto ricollegandole alle movenze umane. Scriveva Elias Canetti in Masse e potere che i gesti sono più antichi delle parole. E proprio per questo parlano più a fondo. Il diritto che si limita a leggere l’apparenza di un gesto, ignorandone la genealogia storica, si trasforma in un paraocchi formale. Come chi osserva un’arma e la definisce “oggetto metallico”, trascurando che possa sparare.
La libertà d’espressione, che certo va tutelata, non è un alibi per la volgarizzazione della memoria. Come ebbe a scrivere Norberto Bobbio in Elogio della mitezza, la tolleranza è una virtù difficile, che va coltivata con giudizio, perché è la tolleranza dell’intollerabile che la uccide.
A scanso di equivoci: non si propone qui una caccia alle streghe, né si auspica l’estensione dell’antifascismo a codice morale obbligato, né si vuole sovraccaricare la magistratura di oneri non suoi. Ma esiste un discrimine tra libertà e irresponsabilità. E quel discrimine, in uno Stato liberale, deve valere anche nei confronti di chi utilizza la libertà per glorificare, implicitamente o esplicitamente, ciò che la libertà ha negato.
La sentenza del TAR, pur giuridicamente coerente, è politicamente miope. Sdogana il gesto nel nome della neutralità amministrativa, ma dimentica che la neutralità istituzionale, quando applicata ai simboli, è essa stessa una scelta: quella di voltarsi dall’altra parte. Per usare il linguaggio sportivo, chissà un fallo di mano dei giudici del TAR, magari frutto di un espediente tecnico, avrebbe aiutato la liberal-democrazia...
La libertà, se vuole dirsi autentica, non può prescindere dal peso della responsabilità storica. E questa, com'è noto, talvolta costringe a scelte difficili, anche impopolari: piccoli strappi alle regole, necessari per difendere il principio stesso che le giustifica. La tolleranza, se assoluta, finisce per cedere all’intolleranza: va quindi vigilata, protetta, persino difesa. Anche in chiave preventiva. E il diritto – anche quello amministrativo, spesso trascurato ma denso di sfumature – può offrire strumenti utili.
Oggi, di fronte a un saluto romano esibito pubblicamente, la Repubblica non deve cadere nella trappola della repressione cieca, né rifugiarsi in un permissivismo distratto. Serve misura. Serve senso storico. E serve quella saggezza istituzionale che sa distinguere tra ciò che va ignorato e ciò che, invece, va fermamente sanzionato.
Non si tratta, insomma, di seguire fino in fondo il celebre consiglio manzoniano del Conte Zio al Padre Superiore – “sopire, troncare, troncare, sopire…” – ma di rispondere, con fermezza mite, senza mai perdere la bussola della liberal-democrazia.
Il diritto non può diventare cieco al significato profondo dei gesti. Perché un gesto non è mai solo un gesto. È un’idea incarnata. E non tutte le idee meritano accoglienza pubblica. Alcune, semplicemente, vanno lasciate dove la storia le ha sepolte: nel silenzio della condanna.
Carlo Gambescia

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