giovedì 12 giugno 2025

Stranieri e cittadini: l’antico riflesso della paura

 


Perché stupirsi? E di cosa? Del fatto che al recente quesito referendario sull’accorciamento del termine necessario per richiedere la cittadinanza italiana — da dieci a cinque anni — un 35 per cento di votanti abbia scelto di rispondere “no”? E che, per dinamiche legate al raggiungimento del quorum, si presume trattarsi in buona parte di elettori di sinistra (semplifichiamo)?

Il problema, come si diceva un tempo, è a monte. E rimanda a una condizione antropologica profonda: la percezione dello straniero — dunque dell’ignoto, dello sconosciuto — come pericolo e  minaccia

In breve: la paura dello straniero sembra coincidere con la paura dell’ignoto. Formula, certamente sentenziosa, ma efficace.

In cinquemila anni di storia documentata, per almeno quattromilacinquecento, chi parlava un’altra lingua era considerato un barbaro. Furono i Greci a iniziare. Peggio ancora, poi, se lo straniero era anche un commerciante.

La figura del mercante è sempre stata guardata con sospetto, spesso con disprezzo. E le cose, a ben vedere, non sono poi cambiate molto.

L’anticapitalista, anche di sinistra, non parla forse oggi di “capitale apolide”?

Insomma, non si può negare l’esistenza di un pregiudizio culturale diffuso, una sorta di riflesso condizionato che scatta verso chiunque sia percepito come estraneo alla comunità e magari osi guadagnarsi da vivere. Il termine “fenicio” o “cartaginese” conserva ancora oggi, in certi contesti, una connotazione negativa.

Le tipologie dello straniero sono molte: lo schiavo, il mercante, il missionario, il conquistato… e oggi, il migrante.

Purtroppo, quattro o cinquecento anni di modernità liberale non sono bastati a compiere il miracolo. Ancora oggi, per riflesso antropologico, si tende a vedere nello straniero qualcosa di pericoloso. È un impulso antico, ma ancora vivo.

Ed è questo, in definitiva, che spiega quel 35 per cento di “no”, anche da parte di chi si professa moderno e progressista.

Tra Otto e Novecento, il nazionalismo — di origine romantica — ha complicato ulteriormente le cose. La ricerca delle tradizioni nazionali, che poteva avere un senso nella fase di dissoluzione dell’idea medievale di Impero, come naturale movimento centrifugo, ha finito per rafforzare diffidenza e disprezzo verso lo straniero, verso ciò che non è “nazionale”.

Inoltre, lo Stato moderno, centripeto e centralizzante, una volta privato delle garanzie liberali, si è trasformato in una gabbia. O, peggio ancora, in un serbatoio della razza, alimentato da teorie pseudo-scientifiche, come dimostra abbondantemente il decollo del nazismo nella prima metà del Novecento.

L’uomo può cambiare? Certo. Ma va di nuovo ricordato che cinque secoli sono pochi. Inoltre, il ritorno dei nazionalismi, del protezionismo, perfino dell’autarchia, non aiuta il cambiamento. E si vede.

In conclusione: la modernità ha senza dubbio allargato i diritti, ma non ha scalfito del tutto l’antico timore dell’altro. Forse perché l’uomo moderno, pur immerso nelle tecnologie e dentro istituzioni democratiche, resta — nel profondo — figlio inquieto di una tribù che teme sempre l’arrivo dello straniero.

Però, come detto, si può cambiare. A patto, però, che Trump, Meloni e altri leader con idee simili smettano finalmente di soffiare sul fuoco. Oppure che qualcuno li  obblighi a smettere.   E questa, al momento, la vediamo più dura. Però mai dire mai.

Carlo Gambescia

Nessun commento:

Posta un commento