Al vertice Nato dell’Aia, Volodymyr Zelensky sembrava un attore di contorno. Invitato a far parte della compagnia, sì, ma ben lontano dal proscenio.
Il presidente ucraino è apparso educato, composto, vestito di scuro come un politico qualunque. Ha riposto la felpa mimetica: un cambio d’immagine forse imposto, forse suggerito. Di certo inutile. Perché la scena, quella vera, era già occupata: da una regia transatlantica tutta impegnata a non disturbare Donald Trump.
Un vertice Nato che, più che affrontare i nodi della guerra in Europa, ha preferito recitare a soggetto. E il copione – nemmeno troppo segreto – parlava chiaro: rassicurare chi, a Washington, guarda all’Ucraina come a un fastidio geopolitico.
Zelensky ha parlato. Ha chiesto più armi, più aiuti, più coraggio. Ha ammonito che la guerra incalza oggi, non nel 2035. Ma ha ricevuto solo frasi di circostanza, sorrisi diplomatici, pacche sulle spalle, strette di mano, promesse diluite nel tempo. Lo stesso obiettivo, più generale, del 5% del Pil, versato alle casse Nato, da raggiungere entro dieci anni, suona più come un esercizio contabile che come un impegno politico.
I suoi interlocutori – e Zelensky lo ha capito – avevano altro per la testa. Tutto il vertice è parso un gesto di ossequio verso il padrone della Casa Bianca.
Mark Rutte ha elogiato senza pudore la “determinazione” di Trump in Medio Oriente, evitando con cura di menzionare le bombe che continuano a cadere sull’Ucraina.
E l’ingresso di Kiev nella Nato? Neppure una data simbolica. Nemmeno un percorso definito. Nulla. Come se l’adesione atlantica dell’Ucraina fosse diventata un tabù diplomatico. L'articolo 5 per l'Ucraina resta un'utopia.
A quanto pare, la “risolutezza” occidentale è variabile: decisa dove conviene, elusiva dove costa. E guai a disturbare i veri manovratori del tavolo globale – Trump e Putin – i due poli occulti di un realismo che l’Alleanza ormai recita a memoria.
Zelensky, così, è rimasto sullo sfondo. Uno uomo di stato da rispettare, perché rispetto si è guadagnato (cosa innegabile), ma da non ascoltare troppo. Nessun atto concreto, nessuna svolta. Solo prudenza, lentezze, mediazioni infinite.
Del resto come ricorda Machiavelli nel capitolo VII del Principe, per i principati nuovi non è facile navigare senza scontentare nuovi e vecchi alleati, ora magari tramutatisi in nemici. Di qui l’importanza di virtù e fortuna. E proprio quest’ultima sembra mancare a Zelensky, soprattutto dopo la vittoria di Trump più amico di Putin che suo.
Il messaggio – non detto ma chiarissimo – è stato questo: “Resisti, se puoi. Ma non contare troppo su di noi. Almeno per ora.” Altro che vertice Nato.
E Zelensky ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
L’Aia ha ospitato una rappresentazione teatrale, scritta a Washington e recitata con accenti europei. Zelensky ha fatto da comparsa. E l’Ucraina è stata, ancora una volta, sacrificata sull’altare delle convenienze.
Morale della favola? Quando il regista cambia, gli attori si adeguano. E qualcuno, inevitabilmente, magari il caratterista bravo ma ormai ritenuto inutile rispetto allo sviluppo della trama, viene tagliato dalla sceneggiatura.
Che malinconia.
Carlo Gambescia

Nessun commento:
Posta un commento