domenica 15 giugno 2025

Parata militare a Washington, sangue in Minnesota: l’America divisa del 14 giugno

 


Il 14 giugno, Festa della bandiera nazionale,  compleanno di Donald Trump e, quest'anno, Anniversario dei 250 anni dell'esercito americano, si è trasformato in una data sinistra. 

A Washington, l’ex presidente ha dato sfoggio del suo smisurato ego con una parata militare degna della Corea del Nord o della Piazza Rossa. Altro che Repubblica stellata e costituzionale.  Per chi lo ignorasse l'americano  medio, diciamo così, non ha mai nutrito grande rispetto per la grandeur militare. Il militarismo da questa parti  non è tuttora ben  visto. E la politica sì è sempre adeguata. Quando necessario, le due grandi guerre novecentesche ad esempio, si è sparato, ma senza mitizzare chi sparava.

Proprio ieri, mentre Trump  giocava  ai soldatini, in Minnesota si piangevano due politici democratici locali: uno ucciso, l’altro ferito in circostanze ancora poco chiare, ma comunque sia in un clima da guerra civile a bassa intensità che ormai non sorprende più nessuno. Sono morti la deputata democratica del Minnesota Melissa Hortman e il marito Mark, colpiti da un uomo che, fingendosi agente di polizia, ha poi ferito anche il senatore statale democratico John Hoffman e la moglie. Politici, secondo la polizia, da tempo nel mirino dell’estremismo di destra.

Trump ha imposto i blindati. Ha voluto la fanfara. Ha voluto l’inquadratura perfetta: lui al centro, la bandiera dietro, il popolo davanti. Un culto della personalità che si costruisce attraverso l’apparato dello Stato. E come?  Con una grande parata.  Non è nuovo (si sfilò a Washington, l'ultima volta,  per la vittoria  nella prima guerra del Golfo),  ma resta inquietante.  In nome dell’“ordine”, Trump usa i simboli della forza pubblica per consolidare il proprio potere personale, costruito sul rancore e sull’ossessione per la purezza (razziale, culturale, politica).

Nel frattempo, l’America vera cade a terra, come i legislatori in Minnesota, colpiti a morte in una sparatoria che — al di là dei dettagli tecnici — ha il sapore di un messaggio. È come se la violenza, ormai, fosse parte integrante della dialettica politica. Trump ha condannato. Ma cosa poteva fare? Il punto è un altro: Trump è realmente interessato alla vita dei suoi avversari? Da come ha liquidato i manifestanti di Los Angeles – “bestie” – non sembra.

C’è qualcosa di pericolosamente teatrale nella parata voluta da Trump. Ma è un teatro che attiene alla tragedia non alla farsa. Si mette in scena la militarizzazione della politica, la trasformazione del dissenso in minaccia, dell’avversario in nemico. La piazza che protesta, da Chicago a Los Angeles, da Seattle a New Orleans sarà ascoltata? Ci saranno conseguenze politiche?

Il "No King’s Day", organizzato dal movimento 50501 – "50 protests, 50 states, 1 movement" – ha avuto successo: oltre 2.000 eventi in tutti i 50 stati, con una partecipazione, secondo le  varie fonti,  stimata tra i  5 e gli  11 milioni di persone. Ma, ripetiamo,  la piazza sarà ascoltata? Ci saranno conseguenze sfavorevoli per Trump? Il partito democratico, che sembra semiaddormentato reagirà finalmente? Oppure tutto resterà come una specie di indistinto rumore di fondo? O peggio ancora Trump liquiderà queste persone che hanno civilmente protestato come una turba da reprimere?  


Il trumpismo, come insegnano i fatti di Capitol Hill, ha un’anima violenta, non è solo retorica. Pesca nell’anima nera del peggiore estremismo didestra. Si marcia, si urla e ora si spara. Democrazia emotiva: sempre meno si vota con la testa, sempre più con la pancia. Trump è il grande burattinaio di una guerra simbolica che si sta facendo materiale. E quando la politica imita in modo illimitato la guerra, la democrazia si spegne o comunque rischia di essere sospesa.

I difensori di Trump, anche in Italia, parlano di una normalissima manifestazione di patriottismo. Ma quale patria? Quella che chiude i confini e apre le fondine? Quella che celebra la forza mentre seppellisce i suoi rappresentanti eletti? La parata del 14 giugno ci mostra un paese diviso : i civili nelle piazze, l’esercito per le strade. L’America che scende dal piedistallo per gridare “basta” viene guardata dai benpensanti con sospetto. Invece  l’America  che sfila in divisa dietro un uomo solo al comando  si autoincensa, promuovendosi a patriota con il diritto di esclusiva sugli Stati Uniti.

Il pensiero corre inevitabilmente agli anni di Weimar, anni scolpiti a fuoco dalla storia del peggiore dei nazionalismi, quello hitleriano. E non è una esagerazione. Il nostro è un invito alla prudenza, alla memoria. È sociologia dell’antidemocrazia: Quando il capo si mette la divisa, o la usa come specchio, la repubblica non può non tremare.

La giornata del 14 giugno non ha un significato solo simbolico. Rappresenta un bivio. Da una parte, la violenza diffusa, politica e sociale, che ormai contagia anche le istituzioni locali, come a Los Angeles e in Minnesota. Dall’altra, la sacralizzazione del potere forte, incarnato da un presidente che si considera invincibile e che in controtendenza con la storia americana si autocelebra tra carri armati e inni militari.

La vera domanda è se gli Stati Uniti riusciranno a disinnescare questa deriva senza cadere nell’irreparabile. Perché la violenza, come il potere, ha una memoria lunga. E l’America, oggi, sembra aver dimenticato  le sue lezioni migliori.

Carlo Gambescia

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