domenica 29 giugno 2025

Il Gay Pride e l’amore a trecentosessanta gradi

 


Il Gay Pride in Ungheria è stato un successo. Né incidenti, né reazioni, nonostante il divieto iniziale imposto dalla polizia. È un segnale importante.

Vale la pena riflettere su un punto spesso trascurato: cosa si cela dietro l’atteggiamento delle varie destre sparse per il mondo contro  l’“amore a trecentosessanta gradi”, per usare un modo di dire di Giorgia Meloni? La risposta è una visione autoritaria del vivere sociale. Ovvero, la pretesa che esista un solo modo legittimo di concepire i sentimenti: un modello rigido, imposto dall’alto, dallo Stato.

Questa destra — estrema, radicale, intransigente — rifiuta la principale conquista della modernità: la relatività delle credenze. Ragiona come ai tempi delle guerre di religione, quando il protestantesimo “osò” rompere l’unità cattolica e religiosa dell’Europa. Così, nel rifiuto di ogni pluralismo, si torna a un’idea di ordine che ha il sapore stantio dell’intolleranza. Una destra che si oppone al Gay Pride è come un orologio con le lancette indietro di cinque secoli. Patetica.

Fortunatamente, le società evolvono in modo spontaneo, secondo le dinamiche di un relativismo dal basso. Gli individui si abituano da soli, gradualmente, a nuovi modi di sentire. Ma non si tratta solo di adattamento passivo: scelgono, liberamente e consapevolmente, di vivere secondo forme affettive che sentono più autentiche. L’amore a trecentosessanta gradi, in un solo secolo, ha compiuto passi da gigante. I sentimenti  sono più forti e profondi  delle convenzioni che una certa destra, incapace di comprenderne la portata metapolitica, tenta invece di imporre con la forza della norma.

In fondo, le società vanno dove le porta il cuore — parafrasando un celebre titolo. Credere nell’evoluzione spontanea significa saper attendere. Non si può imporre il relativismo per legge. Sarebbe un errore. Devono essere i costumi a cambiare prima, naturalmente, in modo da evitare distonie tra norme giuridiche e valori condivisi. La manifestazione ungherese dimostra che il cambiamento è già in atto, persino là dove una parte della classe dirigente lo osteggia.

Attenzione, però: se è vero che il relativismo non può essere imposto, è altrettanto vero che una società liberale deve proteggere se stessa. Il principio per cui nessuna credenza è superiore all’altra non può essere usato contro la stessa società che lo garantisce. Un partito omofobo o apertamente nazista non può invocare la tolleranza per distruggere la tolleranza. Ecco perché serve un relativismo vigile, difensivo, limitato a quelle forze — di destra o di sinistra — che accettano le regole del gioco liberale e riconoscono la legittimità dell’amore in tutte le sue forme.

Certo, l’idea che non si possa imporre il relativismo, e al tempo stesso che lo Stato debba difendere i valori liberali, può sembrare contraddittoria. Ma non lo è, se si comprende che l’equilibrio tra spontaneità sociale e intervento istituzionale è fragile, e va costruito giorno dopo giorno. È un equilibrio storico, imperfetto, ma prezioso: oggi rappresentato dalla società liberale, il migliore dei mondi possibili nel nostro tempo. Da qui nasce, se ci si perdona il gioco di parole,  il valore dei valori da difendere.

In conclusione, chi si oppone all’amore a trecentosessanta gradi, chi rifiuta il lento e naturale mutare dei costumi, non solo tradisce lo spirito liberale, ma soffoca il cuore vivo della società. Perché una società che non ascolta il battito dei suoi sentimenti è una società destinata a morire di nostalgia per un passato che non ritorna. E allora sì, la vera sicurezza è nel cambiamento che accoglie, non nell’ordine che reprime.

Carlo Gambescia

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