lunedì 16 giugno 2025

Israele ha ragione a combattere? Un’analisi oltre il moralismo

 


Nel grande gioco mediorientale, la recente escalation tra Israele e Iran non rappresenta — per chi sappia leggere la storia oltre il velo delle emozioni — un incidente, bensì il naturale epilogo di una lunga traiettoria di ostilità ideologica, strategica ed esistenziale.

E chi oggi si scandalizza per le reazioni di Israele – talvolta dure, talvolta ciniche, ma sempre animate da un razionale motivo  di fondo – dovrebbe forse domandarsi quale altra opzione resti a una nazione assediata, minacciata, demonizzata in ogni foro internazionale.

Quest’ultimo capoverso illustra bene la nostra posizione filoisraeliana. Quindi mettiamo subito le carte in tavola. Il che, come vedremo più avanti, non significa sposare in toto la linea politico-militare di Netanyahu. Oppure esagerare in moralismo di segno opposto.

Il problema, purtroppo, è che viviamo in un’epoca in cui il realismo metapolitico, come fredda analisi dei fatti, quindi come condicio sine qua non della metapolitica, è stato sostituito dal moralismo politico. 

Non si guarda più ai rapporti di forza, ma ai sentimenti morali; non si analizza, si simpatizza. E se c’è un attore che paga il prezzo di questa deriva emozionale, è proprio Israele: unico stato democratico della regione, unica realtà capace di una riflessione autocritica interna, e tuttavia costantemente messo all’angolo, come se il solo diritto riconosciutogli fosse quello alla perpetua penitenza.

È naturale non poter condividere né l’operato del governo Netanyahu, né la persona stessa. Tuttavia, è fondamentale evitare l’errore di identificare Netanyahu con lo Stato di Israele, come spesso accade agli antisionisti, o, peggio ancora, di confondere l’uomo con l’ebraismo, cadendo così nella trappola dell’antisemitismo.

Se Netanyahu ha commesso, come non pochi in Europa sostengono, un genocidio, sarà prima o poi chiamato a pagare. E si spera dinanzi a un tribunale internazionale. In questo modo, consegnando Netanyahu , dopo averne individuato con onestà le responsabilità in patria, Israele potrebbe dare una lezione di liberal-democrazia al mondo. Questo però dovrà accadere al termine del mandato politico di Netanyahu.

Dall’altra parte, l’Iran: un regime teocratico, rivoluzionario per vocazione, imperiale per istinto, che da oltre quarant’anni investe energie e capitali nell’edificazione di un fronte anti-israeliano permanente. Hezbollah, Hamas, milizie sciite in Iraq e Siria: Teheran non nasconde il proprio progetto, lo rivendica. L’eliminazione dello Stato ebraico non è un’opzione estrema, è la linea ufficiale. Anche le varie supreme guide che si sono succedute a Teheran andrebbero consegnate alla giustizia internazionale. Ma ciò potrebbe accadere solo in un nuovo Iran, moderno, liberale, alleato di Israele e  dell' Occidente. Occorre insomma un radicale cambio di regime politico e sociale. Una rivoluzione liberale.

Schematizziamo troppo? Polarizziamo, umiliando la complessità delle cose?  Israele e Iran ridotti caricature?  Abbassiamo la questione palestinese a  semplice appendice del confitto tra Israele e Iran? E sia. Ne prendiamo atto. Diciamo pure che sfoltiamo per andare all’essenziale.

Israele, questo lo si dimentica, non ha mai cercato lo scontro diretto con l’Iran. Ha reagito – talvolta in modo preventivo, certo – a una strategia che lo vuole cancellare dalla mappa. Il diritto all’autodifesa è un principio cardinale della politica internazionale. E chi lo nega a Israele si pone, forse senza rendersene conto, fuori dal perimetro del realismo politico e della metapolitica.

Come abbiamo più volte scritto la vera tragedia, oggi, è che l’Occidente, paralizzato da un senso di colpa coloniale e da una nuova religione dei diritti welfarizzati (il cittadino come bambino viziato), fatica a riconoscere gli amici dai nemici. Israele non è perfetto, nessuno lo è. Ma in una regione dove si uccide per una vignetta e si lapida per un abito, la sua imperfezione è quella di una democrazia assediata. Non dovremmo aver paura di ricordarlo.

Difficile prevedere gli esiti, in un Medio Oriente che, a proposito della questione palestinese, non sembra credere più, e da un pezzo, nel lontano miracolo di Oslo (1993): accordi di reciproco riconoscimento ben gestiti da Rabin, Arafat, Clinton. Dopo di che, anche a seguito di circostanze drammatiche (l'assassinio di Rabin), le elezioni furono vinte da  Netanyahu (1996),  Prima tappa della  historia novella...

Si abbraccia invece la logica della forza. Quindi del rischio a tutto campo: infatti lo scontro con l’Iran potrebbe, con un passo indietro, essere confinato alla guerra ombra – droni, cyberattacchi, sabotaggi – oppure degenerare in un conflitto aperto, per procura o diretto, come sta accadendo. 

Molto dipenderà dagli Stati Uniti, oggi più distratti che decisi, e dall’Europa, che sembra aver scambiato la diplomazia con una posizione filopalestinese e troppo tollerante verso l’Iran. Di russi e cinesi meglio non fidarsi.

Finché l’Iran continuerà a fomentare instabilità e violenza nella regione, e finché l’Occidente confonderà il desiderio di pace con una sorta di resa o debolezza, Israele non avrà altra scelta che continuare a combattere. Non lo farà per espandere il proprio territorio (come facevano certi regimi del passato, ad esempio quello di Nasser in Egitto), ma per garantire la propria sopravvivenza. Chi desidera davvero una pace concreta – non una pace utopica – dovrebbe ricordare che, nella storia, la pace duratura è quasi sempre frutto della forza. Raramente è il risultato della debolezza.

Carlo Gambescia

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