venerdì 20 giugno 2025

Quarantasei anni di errori: l’Occidente e il disastro iraniano

 


Quel che oggi accade in Iran è il prodotto di una lunga catena di errori dell’Occidente. Errori politici, strategici e soprattutto culturali. Sono cose che vanno dette anche a costo di essere accusati di una lettura binaria e semplicistica della storia e della politica internazionale. Quel che perderemo in profondità analitica lo guadagneremo in chiarezza espositiva.

Il primo errore – forse il più grave – fu quello di sottovalutare la  reale natura del clero sciita negli anni Settanta. Si pensò, ingenuamente o colpevolmente, che dietro le vesti religiose ci fosse un’anima democratica. Così si lasciò cadere lo Scià, Mohammad Reza Pahlavi, figura autoritaria ma modernizzatrice, e si lasciò spazio a Khomeini.

Il risultato? Che dopo neppure tre mesi da quella maledetta scaletta dell’aereo da cui discese Khomeini, di ritorno dall’esilio francese, nacque nell’aprile del 1979 la Repubblica islamica: un regime teocratico feroce, repressivo, nemico dichiarato dell’Occidente e dei suoi valori. L’Iran degli ayatollah non è un incidente di percorso, ma la conseguenza diretta di quel tragico abbaglio.

Il secondo errore fu l’illusione di poter “giocare” con l’Iran e i suoi vicini secondo la logica dell’equilibrio del terrore regionale. Prima si tollerò Teheran in funzione anti-Baghdad, poi si sostenne Saddam in funzione anti-iraniana. Una partita cinica e pericolosa, nella quale si armarono alternativamente gli uni e gli altri. Una follia: come voler portare il principio della temperanza in un’osteria ricolma di ubriachi armati.

Il terzo errore, più recente ma non meno grave, fu credere – o fingere di credere – che il programma nucleare iraniano fosse esclusivamente civile. Ci si affidò a una diplomazia debole, a ispezioni parziali, a rassicurazioni risibili. E l’Europa, in particolare, si distinse per un pacifismo sterile e inconcludente, che fece il gioco di Teheran. Anche gli Stati Uniti, almeno in una fase, si lasciarono coinvolgere in questa farsa geopolitica.

E adesso, come una specie di foglia di fico, si discute del fatto che l’Iran possa costruire un’atomica in meno di due settimane: il tempo che serve a Trump, come ha dichiarato ieri, per riflettere se intervenire o meno.

Quando si dice il caso… Quarantasei anni di errori e due settimane per risolvere tutto. Ci sarebbe da ridere, se la situazione non fosse così grave. Anche perché, senza interventi militari diretti sul campo, insomma senza strategie militari precise e concertate, capaci di eccitare rivolte interne, giocando su forze di opposizione che pur resistono, il rischio è quello di un Iran che diventi una sorta di macro Gaza a cielo aperto. Un gigantesco campo di tiro al piattelo: “Pull!” E il lanciatore preme il pulsante che lancia in aria il disgraziato di turno.

Il che  non è una bella prospettiva.

Il quarto errore è quello attuale: mentre Israele affronta sul campo la minaccia iraniana – con durezza, certo, ma nella sostanza anche a difesa dell’Occidente – si levano voci di condanna e appelli alla pace. Si cerca di legare le mani a Israele proprio mentre combatte il nemico che noi, per viltà o convenienza, non abbiamo mai davvero voluto affrontare.

Il problema è chiaro: se una civiltà non sa più riconoscere i suoi nemici, ha già imboccato la via della decadenza. Europa e Stati Uniti, oggi, sembrano confusi, paralizzati, incapaci di una linea comune e coerente. E il proliferare del cancro nazionalista in Occidente non aiuta, perché mette tutti contro tutti, favorendo l'avanzata del nemico comune esterno.

E ora che il regime iraniano mostra crepe, che le tensioni si moltiplicano e la crisi regionale rischia di esplodere, ecco che i nodi vengono al pettine. Ma non c’è un piano, non c’è una strategia condivisa. Il cambio di regime in Iran – obiettivo dichiarato ma mai perseguito seriamente – richiederebbe forze sul campo, collaborazione tra alleati, chiarezza di intenti. E invece?

L’ Israele di Netanyahu agisce da solo. L’America di Trump prende tempo. L’Europa si rifugia nei salotti delle conferenze di pace. Intanto gli ayatollah si presentano come vittime del colonialismo occidentale, quando in realtà da decenni governano con pugno di ferro, soffocando ogni libertà.

Se davvero esistesse quel famigerato “sistema coloniale” di cui tanto si parla, l’Iran sarebbe oggi una monarchia moderata, alleata dell’Occidente, prospera e stabile. Invece, ecco,  ciò che vediamo: una teocrazia bellicosa e repressiva. E di questo, almeno in parte, dobbiamo ringraziare noi stessi.

Infine, qualcuno potrebbe ritenere che la caduta dello Scià venga trattata in modo troppo sbrigativo, trascurando le proteste popolari autentiche e le gravi violazioni dei diritti umani. Non si tratta, in realtà, di assolvere lo Scià né di ignorare le ombre del suo regime. Tuttavia, è altrettanto fuorviante continuare a raccontare quella storia come se tutto fosse cominciato nel 1979, come se l’ascesa di Khomeini fosse stata solo l’espressione spontanea di un popolo oppresso, e non anche il risultato di precise scelte, omissioni e ingenuità da parte dell’Occidente.

Quarantasei anni dopo, l’errore più grande resta quello di non voler vedere. Di non voler riconoscere che l’Iran degli ayatollah non è un’alternativa, ma una minaccia. E che l’Occidente, ancora oggi, resta diviso tra chi lo comprende – spesso inascoltato – e chi, per ideologia o calcolo, preferisce voltarsi dall’altra parte.

Non c’è più tempo per l’ambiguità, per l’autoflagellazione o per le illusioni pacifiste. Se l’Occidente vuole davvero difendere i suoi valori, deve cominciare col recuperare la lucidità necessaria a riconoscere i propri errori. E, finalmente, smettere di ripeterli.

 Carlo Gambescia

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