Giano è tornato. Non quello delle cartoline turistiche o dei libri di mitologia, ma il Giano bifronte della politica: da un lato la guerra, dall’altro la pace. Due volti inseparabili, eppure inconciliabili. Dopo decenni di rimozione postmoderna, il volto bellico di Giano torna a imporsi.
A capitanare il ritorno non è la sinistra, ma la destra. Una destra nuova, “globale”, che da Trump a Netanyahu – passando per Meloni, Orbán, e altri conservatorismi armati dall’ Europa orientale al Pacifico – ha smesso di vergognarsi della parola “guerra”. Anzi, la rivendica.
La nuova destra ha compreso, o almeno finge di comprendere, ciò che la sinistra ha dimenticato: la storia non è un pranzo di gala, e la politica non è una funzione morale. È lotta, interessi, passioni, potenza. Certo, anche valori, ma portati sulle spalle di uomini armati. In fondo, Giano – il dio degli inizi, soglie e passaggi – ci ricorda che ogni costruzione politica ha il suo fondamento nella possibilità della forza. Non è un invito alla guerra, ma un avvertimento: senza la guerra come opzione, la pace diventa solo un’illusione.
Netanyahu, ad esempio, non si nasconde. Non cerca giustificazioni metafisiche. La sicurezza di Israele, dice, si costruisce giorno per giorno con il ferro e con il sangue. E bombarda Teheran. Il che non significa che sia una bella persona.
È brutale? Sì. È cinico? Pure. Ma, qui c’è qualcosa che va oltre Netanyahu: la realtà che si vendica.
Trump, altro scalmanato, dal canto suo, ha ribaltato il lessico obamiano della prudenza e della colpa. L’America, per lui, deve tornare a “farsi temere”, più che a “farsi amare”. E scalpita. Anche Meloni – pur con il freno a mano europeo tirato – mostra simpatia per questo linguaggio dell’ordine e della forza, soprattutto sul piano simbolico. È il ritorno della politica come scelta tragica, non come esercizio estetico.
La sinistra, invece, è rimasta inchiodata all’altro volto di Giano: quello pacifista, universalista, irenico. Continua a pensare il conflitto come un errore, mai come una possibilità intrinseca della realtà. L’utopia disarmata è diventata ideologia. Detto altrimenti: “io solo possiedo la verità”.
Ogni guerra, per la sinistra è colpa degli altri: mai dei popoli, mai delle culture, mai delle ideologie pacifiste. È sempre e solo “una sconfitta dell’umanità”, come si ripete nei comunicati. Insomma, "tanto peggio per i fatti". Ma se la guerra è una sconfitta, allora la politica stessa lo è: perché la politica nasce proprio dal tentativo di governare il conflitto, non di cancellarlo.
Da qui nasce l’attuale asimmetria. Una destra che si riappropria del concetto di sovranità armata. E una sinistra che abdica alla realtà per rifugiarsi nell’etica. Non è solo una differenza di politiche estere: è una differenza di antropologie. La destra descrive l’uomo come essere bellico, interessato, tribale. La sinistra come creatura emancipabile, pacificabile, educabile al bene. Entrambe le visioni hanno radici profonde. Ma oggi, in un mondo che torna multipolare, violento, cinico, chi può permettersi l’ingenuità?
E così si torna a Giano. La storia bussa alle porte, e ci chiede di guardarla con entrambi i volti. Come se ne esce? Forse non se ne esce affatto. Ma si può cercare di restituire alla politica una doppia consapevolezza: la guerra è reale, e la pace è fragile. Solo un pensiero capace di tenere insieme entrambi i volti può affrontare la nuova epoca. Né glorificazione della violenza, né fuga nel sogno. Realismo. Cultura del limite. Maturità.
Attenzione non è nostra intenzione generalizzare troppo, sappiamo benissimo che la contrapposizione destra/guerra vs sinistra/pace può essere utile come costruzione dialettica. Ma sappiamo anche che si rischia di semplificare troppo le cose. Non tutta la destra è bellicista, né tutta la sinistra è pacifista. Ad esempio, Biden (centrosinistra) ha mostrato notevole fermezza sul piano militare nei riguardi della Russia.
Neppure desideriamo glorificare la guerra e così tirare la volata a personaggi come Trump e dittatori vari. Può sembrare che l’articolo tenda a dare un tono quasi epico alla riscoperta della forza. Ma chi ci segue sa che non è così. Restiamo semplicemente a guardia dei fatti.
Crediamo si debba lavorare, prima di tutto a livello metapolitico a una specie di terza via: al ritorno di un sano realismo politico. Che aiuti a capire quando ci si deve fermare. Come dire? Guerra sì, quando necessario, senza però esagerare.
Ad esempio al realismo politico di liberali come Guglielmo Ferrero, Bertrand de Jouvenel, Raymond Aron, Julien Freund, solo per fare qualche nome. Si deve guardare a una posizione che senza glorificare la guerra ne riconosce la realtà. E cerca di governarla, non negarla. Una politica che unisca forza e misura, senza cadere nel delirio bellicista né nell’utopia disarmata.
Ecco cosa manca oggi. A destra, troppo spesso affascinata dal fragore delle armi. A sinistra, prigioniera della sua stanca retorica. Giano è tornato. Sta a noi riconoscerlo. O pagheremo – ancora una volta – il prezzo dell’accecamento ideologico. Pacifista.
Carlo Gambescia

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