Il dibattito politico dopo la Brexit
Populista a me ?
Ma mi faccia il piacere….
È veramente
interessante osservare dal punto di vista sociologico come nel
dibattito politico, successivo alla Brexit, i perdenti
accusino di populismo i vincitori, attribuendo al termine un' accezione negativa. E come invece nelle repliche i vincitori se ne vantino. Vogliamo fare un poco di chiarezza?
Secondo Vico,
per prenderla da lontano, «la natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa,
quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta» (Scienza nuova, Libro I, Degnità LXVII). Insomma, il popolo era « uno istrumento», instabile
e pericoloso da maneggiare. E oggi? Dopo alcuni secoli di democrazia, le cose
sono cambiate? No. Infatti, nelle democrazie liberali e parlamentari si
continua a diffidare, e giustamente: il
populista - colui che inneggia al popolo - continua a non essere ben visto. Di
regola, si scorge nel populismo il tentativo di trovare facili consensi tra
classi considerate poco evolute (per usare un eufemismo): roba da
“arruffapopoli” per aspiranti dittatori. E qui Aristotele, Tocqueville e pure
Vico si darebbero soddisfatti la mano…
Il populismo,
insomma, pone al centro il popolo, quale fonte ideologica di ogni potere
democratico. I suoi critici, invece, ritengono che l’appello al popolo sia
puramente strumentale e basato sul ricorso ai peggiori “istinti animali”. E qui nasce
una rilevante contraddizione, come dire,
sistemica. Perché la democrazia ha il suo principio di legittimità proprio nella volontà popolare. Quindi, "istinti animali" o meno, l’appello
al popolo è fondante, rifondante eccetera. Inoltre va ricordato, che tutti i movimenti politici
moderni, nella fase di “stato nascente” (prima di “acchiappare” il potere) si
sono sempre appellati alla sovranità popolare, a cominciare da quelli liberali
(si pensi alle rivoluzioni ottocentesche per le Costituzioni). Dopo di che, nella
fase post-rivoluzionaria , il ricorso diretto al popolo, pur presente come
principio, è sublimato in favore di
forme istituzionali di tipo parlamentare.
Riassumendo,
all’interno della politica moderna, sprovvista di altre forme di
legittimazione, l’appello al popolo è un dato sociologico e politico costante,
che vale per tutti: populisti e anti-poupulisti. Perciò, l’accusa di populismo
è certamente strumentale, ma “a doppio senso di marcia”. Perché, per un verso,
riguarda il tentativo delle forze al potere (istituzionali) di tutelarsi,
screditando, a priori, ogni opposizione movimentista (allo stato nascente,
appunto), definendola nemica della democrazia rappresentativa. Per l’altro
però, il movimentista, pur di conquistare il potere, attacca strumentalmente le
istituzioni esistenti, liquidandole a priori come nemiche di un popolo-
parte-sana per eccellenza, che viene così “reinventato” per puri scopo
politici.
Comunque sia,
e per farla breve: sia le istituzioni che i movimenti populisti si ritengono
depositari della sovranità popolare. Di qui, la feroce lotta, spesso
sotterranea, che ha come obiettivo la conquista o la difesa della legittimità
politica. Inoltre, i movimenti populisti tendono ad avere maggiore forza di
penetrazione nella società rispetto ai movimenti sociali e politici della
sinistra classica (socialdemocratica e rivoluzionaria), perché rifiutano
l’internazionalismo e puntano sull’idea del popolo-nazione. Rifiuto che diventa
tanto più efficace quanto più, come accade oggi, la globalizzazione viene considerata quale causa di disgregazione sociale. È vero? È falso? Che la
globalizzazione faccia male ai popoli? Chi
scrive - basandosi sulla letteratura più
seria in argomento - ritiene che la più ampia circolazione delle merci e delle
idee sia un fattore, in ultima istanza, di progresso e di pace. Tuttavia, il pluricentrismo economico collide con l’ etnocentrismo politico e sociale, che
invece sostiene l’esatto contrario. E la politica, che punta sull’effetto-credenza, e quindi nel caso specifico sull'angoscia collettiva, come paura di una prossima perdita economica, piuttosto che sulla perdita effettiva di beni e servizi, avrà sempre una marcia in più su una scienza,
come quella economica, che parla alle menti e agli interessi e non ai cuori e alle passioni. Il che, almeno da Adam Smith, è
un bel problemino. Non solo cognitivo.
Qualche
conclusione.
La forza di un
movimento populista, come quella delle istituzioni che ne ostacolano la
crescita, dipende, dando per scontato un livello minimo di benessere, dal grado di “scollamento” tra la realtà e la reinvenzione istituzionale e populista della realtà.
Siamo davanti a
un problema di maturità e capacità collettive di apprezzamento dei risultati
perseguiti dal sistema istituzionale. Quanto più cresce l’insoddisfazione - attenzione, come angoscia di perdere o di avere
qualcosa, non come mix di dolore e paura per averla già
persa o non avuta - tanto
più la protesta dei movimenti populisti tende a rafforzarsi. Di qui, la
necessità per le istituzioni di non
perdere credibilità ( e legittimità). Ma come? Inseguendo il populismo sul piano della
demagogia? Quindi “sfasciando” tutto, economicamente. Oppure cercando di spiegare razionalmente la bontà (sistemica) di ciò che si è fatto
finora? E in quanti ascolteranno o saranno in grado di capire o condividere? Purtroppo, populismo e senso di angoscia collettiva procedono insieme. E i discorsi razionali, di
regola, lasciamo il tempo che trovano, soprattutto sul piano collettivo e in particolare nelle fasi in cui il giudizio sulla crisi (negativa) tende a prevalere sui fatti, perché “comanda” l' angoscia collettiva.
Prove di forza
in vista? Difficile dire. Dal momento che resta molto complicato prevedere l’evoluzione
sociologica di un populismo vittorioso. In genere, come mostra la storia del
Novecento, la critica alle istituzioni liberal-democratiche rischia sempre
di sfociare in forme autoritarie, se non proprio totalitarie. Tuttavia non si
può neppure escludere che il populismo contemporaneo possa essere cooptato sul
piano istituzionale, dando così un suo contributo politico di rinnovamento,
senza "sfasciare" tutto…
Un bel
dilemma, insomma. Anche se non bisogna disperare, perché secondo Pareto, che se
ne intendeva, i popoli, di regola, sono più conservatori di coloro che li
governano.
Carlo Gambescia
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