sabato 25 giugno 2016

Il dibattito  politico dopo la Brexit 
Populista  a me ?
Ma mi faccia il piacere….




È veramente interessante osservare dal punto di vista sociologico come nel dibattito politico, successivo alla Brexit,  i perdenti  accusino di populismo i vincitori, attribuendo al termine un' accezione negativa.  E come invece nelle repliche i vincitori se ne vantino.  Vogliamo fare un poco di chiarezza?       
Secondo Vico, per prenderla da lontano, «la natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta» (Scienza nuova, Libro I, Degnità LXVII). Insomma, il popolo era « uno istrumento», instabile e pericoloso da maneggiare. E oggi? Dopo alcuni secoli di democrazia, le cose sono cambiate? No. Infatti, nelle democrazie liberali e parlamentari si continua a diffidare, e giustamente:  il populista - colui che inneggia al popolo - continua a non essere ben visto. Di regola, si scorge nel populismo il tentativo di trovare facili consensi tra classi considerate poco evolute (per usare un eufemismo): roba da “arruffapopoli” per aspiranti dittatori. E qui Aristotele, Tocqueville e pure Vico si darebbero soddisfatti la mano…
Il populismo, insomma, pone al centro il popolo, quale fonte ideologica di ogni potere democratico. I suoi critici, invece, ritengono che l’appello al popolo sia puramente strumentale e basato sul ricorso ai peggiori “istinti animali”.  E qui nasce una  rilevante contraddizione, come dire, sistemica. Perché la democrazia ha il suo principio di legittimità  proprio nella volontà popolare. Quindi, "istinti animali" o meno, l’appello al popolo è fondante, rifondante eccetera.  Inoltre va  ricordato, che tutti i movimenti politici moderni, nella fase di “stato nascente” (prima di “acchiappare” il potere) si sono sempre appellati alla sovranità popolare, a cominciare da quelli liberali (si pensi alle rivoluzioni ottocentesche per le Costituzioni). Dopo di che, nella fase post-rivoluzionaria , il ricorso diretto al popolo, pur presente come principio, è sublimato  in favore di forme istituzionali di tipo parlamentare.
Riassumendo, all’interno della politica moderna, sprovvista di altre forme di legittimazione, l’appello al popolo è un dato sociologico e politico costante, che vale per tutti: populisti e anti-poupulisti. Perciò, l’accusa di populismo è certamente strumentale, ma “a doppio senso di marcia”. Perché, per un verso, riguarda il tentativo delle forze al potere (istituzionali) di tutelarsi, screditando, a priori, ogni opposizione movimentista (allo stato nascente, appunto), definendola nemica della democrazia rappresentativa. Per l’altro però, il movimentista, pur di conquistare il potere, attacca strumentalmente le istituzioni esistenti, liquidandole a priori come nemiche di un popolo- parte-sana per eccellenza, che viene così “reinventato” per puri scopo politici.
Comunque sia, e per farla breve: sia le istituzioni che i movimenti populisti si ritengono depositari della sovranità popolare. Di qui,  la feroce lotta, spesso sotterranea, che ha come obiettivo la conquista o la difesa della legittimità politica. Inoltre, i movimenti populisti tendono ad avere maggiore forza di penetrazione nella società rispetto ai movimenti sociali e politici della sinistra classica (socialdemocratica e rivoluzionaria), perché rifiutano l’internazionalismo e puntano sull’idea del popolo-nazione. Rifiuto che diventa tanto più efficace quanto più, come accade oggi,  la globalizzazione viene  considerata quale  causa di  disgregazione sociale. È vero? È falso? Che la globalizzazione faccia male ai popoli?  Chi scrive -  basandosi sulla letteratura più seria in argomento - ritiene che la più ampia circolazione delle merci e delle idee sia un fattore, in ultima istanza,  di progresso e di pace.  Tuttavia,  il pluricentrismo economico  collide  con l’ etnocentrismo politico e sociale, che invece sostiene l’esatto contrario. E la politica, che punta sull’effetto-credenza,  e quindi nel caso specifico sull'angoscia collettiva, come  paura di una prossima  perdita economica, piuttosto che sulla perdita effettiva di beni e servizi,  avrà sempre una marcia in più su una scienza, come quella economica, che parla alle menti e agli interessi e non ai cuori e alle passioni.  Il che, almeno da Adam Smith, è un bel problemino. Non solo cognitivo.     
Qualche conclusione.
La forza di un movimento populista, come quella delle istituzioni che ne ostacolano la crescita, dipende, dando per scontato un livello minimo di benessere,  dal grado di “scollamento” tra la realtà  e la  reinvenzione istituzionale e  populista della realtà.  
Siamo davanti a un problema di maturità e capacità collettive di apprezzamento dei risultati perseguiti dal sistema istituzionale. Quanto più cresce l’insoddisfazione - attenzione, come angoscia di perdere o di avere qualcosa, non come mix di dolore e paura  per  averla già persa  o non avuta -   tanto più la protesta dei movimenti populisti tende a rafforzarsi. Di qui, la necessità per le istituzioni di  non perdere credibilità ( e legittimità). Ma come?  Inseguendo il populismo sul piano della demagogia? Quindi “sfasciando” tutto, economicamente.  Oppure cercando di spiegare  razionalmente  la bontà (sistemica) di ciò che si è fatto finora? E in quanti ascolteranno o saranno in grado di capire o condividere?  Purtroppo, populismo e senso di angoscia collettiva procedono insieme.  E i discorsi razionali, di regola, lasciamo il tempo che trovano, soprattutto sul piano collettivo e  in particolare nelle fasi in cui il  giudizio sulla crisi (negativa) tende a prevalere sui fatti, perché “comanda” l' angoscia collettiva.  
Prove di forza in vista? Difficile dire. Dal momento che  resta molto complicato prevedere l’evoluzione sociologica di un populismo vittorioso. In genere, come mostra la storia del Novecento, la critica alle istituzioni liberal-democratiche rischia sempre di sfociare in forme autoritarie, se non proprio totalitarie. Tuttavia non si può neppure escludere che il populismo contemporaneo possa essere cooptato sul piano istituzionale, dando così un suo contributo politico di rinnovamento, senza "sfasciare"  tutto…
Un bel dilemma, insomma. Anche se non bisogna disperare, perché secondo Pareto, che se ne intendeva, i popoli, di regola, sono più conservatori di coloro che li governano.
Carlo Gambescia



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