Il libro della settimana:
Gordiano Lupi, Miracolo a Piombino. Storia di Marco e di un gabbiano, Historica 2015, pp. 122, euro 12.00.
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A prima vista, magari soffermandosi solo sul titolo di Miracolo a Piombino. Storia di
Marco e di un gabbiano (Historica
2015), ultimo
romanzo di Gordiano Lupi, si potrebbe pensare a un remake
letterario, per così dire, de Il gabbiano Jonathan Livingston (1970) di Richard Bach. Invece, nulla di tutto questo. Da
un lato un libro pedagogico (quello di Bach), dall’altro un romanzo
antipedagogico, che è sì romanzo di formazione, costruito intorno alle
vicende del gabbiano (Robert) e di un adolescente (Marco), sullo sfondo di una
cittadina normale e leggendaria al tempo stesso: Piombino. Ma è anche romanzo che si regge su due verità, diremmo assiomatiche: la
prima, che il dolore,
anche il dolore di crescere, è
incomunicabile; e infatti Marco ha quale contraltare comunicativo un gabbiano, non altri ragazzi come lui; la seconda, che la natura, non
solo quella sociale, ha dei limiti. Pertanto esistono dei
vincoli, naturali e sociali, insuperabili, che i due “protagonisti”, infelici singolarmente, a modo proprio, come le famose famiglie di Tolstoj, scopriranno però, insieme, crescendo…
Il gabbiano come simbolo di libertà - almeno così leggiamo la metafora
di Lupi - ma anche come stabilità
e ciclicità insite nel
mondo naturale: sorte che accomuna, per estensione, tutti gli esseri viventi. Si è liberi, ma all’interno di regole di specie (per il gabbiano) e sociali
( per gli uomini). Ecco la fonte di ogni contrasto esistenziale (correlato alla crescita come scoperta delle regole) e del (conseguente e inevitabile ) dolore. Incomunicabile, se non al gabbiano
Robert.
«Marco aveva cominciato a sentirsi uno di loro, sullo
specchio di mare davanti all’Isola d’Elba, dal balcone naturale di via del
Popolo, dalle panchine di piazza Bovio protese davanti alle isole, sconvolte
dai venti. Parlava spesso con quei bianchi uccelli che popolano le scogliere e
i tetti delle case di mare. Potevano capirlo?Non lo sapeva. I loro sguardi
erano trasognati e stanchi, ma lui parlava senza sosta,ascoltando grida d’amore
e disperati richiami d’appetito. Lui riusciva a comprenderli. Erano i soli
amici veri d’una fanciullezza che stava lasciando il posto alla pubertà, con la
prima peluria sul volto, le voglie pavide davanti alle ragazzine, le letture
proibite, un mondo di sogni e fumetti che svaniva - dissolvenza irreale della memoria - di fronte a una vita adulta tutta da
edificare. I vecchi albi di Topolino lasciavano il posto a fumetti erotici, un
padre severo ricordava doveri, strade tracciate dal tempo, tutto cambiava,
sembrava impossibile, pareva un sogno imperscrutabile il suo rimpianto. Ela
vita si perdeva nel silenzio di notti dispera te
d’una camera troppo piccola per contenere dubbi e incertezze. Le parole di Paul
Nizan percuotevano i suoi pensieri, uno scrittore mai letto, pure se sapeva a
mente la colonna sonora di Avere
vent’anni. “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che quella è la
più bella età della vita”. Marco non aveva ancora vent’anni. Non avrebbe
permesso a nessuno di dire che stava vivendo un’età spensierata. Che ne
sapevano del suo mondo? Segreti inconfessabili, paure vissute in silenzio,
condanne decretate da tribunali immaginari, dolori confidati a un gabbiano
dalla balaustra in ferro battuto d’un piccolo porto, tra teste di molossi dalle
quali sgorgava acqua da tempi immemorabili » (pp.
12-13).
Ma anche Robert, il gabbiano, sapeva che avrebbe perduto tutto questo. Come impone l'appartenenza di specie.
«Non avrebbe più visto il volo delle rondini nei
primi giorni d’aprile davanti al nido, non avrebbe atteso le garzette dalla
palude o l’airone cinerino solcare l’infinito. Non avrebbe più udito il canto
d’amore delle folaghe dagli stagni del fondo valle, ma neppure avrebbe potuto scrutare i brevi voli delle marzaiole o
dell’imprendibile cavaliere. Il suo mondo si faceva da parte in attesa della
partenza, del viaggio alla scoperta dell’ignoto. La sua giovinezza tratteneva a
fatica una sete d’avventura che non poteva confinare in un territorio angusto,
popolato di ricordi. Non aveva amici da salutare e questo era un vantaggio.
Alle sue spalle lasciava pensieri e rimpianti del passato, ricordi d’un vecchio
padre, il dolore per una madre perduta nel mare della fanciullezza, il
disprezzo del branco per la sua diversità. Ma che cosa poteva sapere quel
branco di pennuti? Suo padre gli aveva insegnato tutto. Non aveva bisogno di
loro per capire il mondo. Per i gabbiani del branco quel panorama di cielo e
mare, che si estendeva a toccare angoli riposti di antiche scogliere, doveva
esistere per permettere di sopravvivere. Una mentalità utilitaristica, pensava
Robert,che ricordava le parole del padre. La sua terra era un insieme di rocce
e mare, un silenzio eterno, un tentativo di quiete nei silenzi della sera.
Robert aveva sempre cercato di rispettare la volontà della natura» (pp. 40-41).
Abbiamo riportato due citazioni, lunghe
ma significative per comprendere lo spirito profondo del romanzo. Che però, ripetiamo, ha una chiave antipedagogica, e proprio
grazie al miracolo di cui si parla nel titolo. Dal momento che
i miracoli, decostruiscono la realtà, fino al punto, talvolta, di farla esplodere (benevolmente esplodere): quella realtà, sulla cui
assimilazione, invece, la pedagogia, maestra di regolarità esistenziali, conta e prospera.
Ecco allora la terza pista del libro, dopo il dolore
(incomunicabile) e le
regole ( sociali e di specie), esiste, anche come gaddiana cognizione del
dolore, la possibilità di apprendere l’arte di vivere (attenzione arte,
non pavesiano mestiere).
«Era vero! Aveva imparato a volare! Poteva solcare le
strade che aveva percorso da sempre, poteva vedere la cima di palme mai
immaginate, tetti e antenne nascoste. Marco volava dietro al gabbiano, con il
vento alle spalle, riusciva a tenere la giusta angolazione per non essere
spinto lontano. Voleva vedere le fonti della vecchia Marina, il liceo corroso
dal salmastro, le case lontane di via del Popolo; voleva andare ai Tre Pini,
guardare le strade, le piccole strade annerite e la fabbrica, gigante d’acciaio
con i fumi spezzati dal vento;voleva volare in picchiata sul golfo di Salivoli, ricordare
suo padre e una bicicletta con un sedile di legno; voleva sentire quel vento
sferzargli il volto, sconvolgere i capelli... Robert era il suo maestro. Adesso
Marco sarebbe potuto andare ovunque. Poteva finalmente condividere il suo
mondo» (113-114).
Da qualche parte abbiamo letto che la
vita ricorda una scalata in montagna: man mano che si sale, tutto appare
più chiaro. Il senso dell'insieme continua a sfuggirci, ma la vista, dall’alto appare sempre più bella. Si chiama arte di vivere. Ha a
che vedere con l'estetica. E, cosa più importante, anzi essenziale,
si nutre di miracoli.
Carlo Gambescia
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