martedì 2 febbraio 2016

Il libro della settimana: Gordiano Lupi, Miracolo a Piombino. Storia di Marco e di  un gabbiano, Historica 2015, pp. 122, euro 12.00.

http://www.ibs.it/libri/lupi+gordiano/libri+di+lupi+gordiano.htmlAggiungi didascalia





A prima vista,  magari  soffermandosi solo sul  titolo di Miracolo a Piombino. Storia di Marco e di un gabbiano (Historica 2015),  ultimo romanzo di   Gordiano  Lupi,  si potrebbe pensare a un remake letterario, per così dire,  de  Il gabbiano Jonathan  Livingston (1970) di  Richard  Bach. Invece, nulla di tutto questo.  Da un lato un libro pedagogico (quello di Bach), dall’altro un romanzo antipedagogico, che è sì  romanzo di formazione, costruito intorno alle vicende del  gabbiano (Robert) e di un adolescente  (Marco), sullo sfondo di una cittadina  normale e leggendaria al tempo stesso: Piombino. Ma è anche  romanzo che si regge su  due verità, diremmo assiomatiche: la prima,  che il dolore, anche il dolore di crescere,  è incomunicabile; e infatti Marco ha quale  contraltare comunicativo un gabbiano, non  altri ragazzi come lui; la seconda, che la natura, non solo quella sociale,  ha dei limiti. Pertanto esistono dei vincoli, naturali e sociali, insuperabili, che i due “protagonisti”, infelici singolarmente, a modo proprio, come  le famose  famiglie di Tolstoj, scopriranno però, insieme, crescendo…
Il gabbiano come simbolo di libertà -  almeno così leggiamo la metafora di Lupi - ma anche come stabilità e ciclicità insite  nel mondo naturale:  sorte che accomuna, per estensione,  tutti gli esseri viventi. Si è liberi, ma all’interno di regole  di specie (per il gabbiano) e sociali ( per gli uomini). Ecco la fonte di ogni  contrasto esistenziale (correlato alla crescita come scoperta delle regole)  e del (conseguente e inevitabile ) dolore. Incomunicabile, se non al gabbiano Robert. 

«Marco aveva cominciato a sentirsi uno di loro, sullo specchio di mare davanti all’Isola d’Elba, dal balcone naturale di via del Popolo, dalle panchine di piazza Bovio protese davanti alle isole, sconvolte dai venti. Parlava spesso con quei bianchi uccelli che popolano le scogliere e i tetti delle case di mare. Potevano capirlo?Non lo sapeva. I loro sguardi erano trasognati e stanchi, ma lui parlava senza sosta,ascoltando grida d’amore e disperati richiami d’appetito. Lui riusciva a comprenderli. Erano i soli amici veri d’una fanciullezza che stava lasciando il posto alla pubertà, con la prima peluria sul volto, le voglie pavide davanti alle ragazzine, le letture proibite, un mondo di sogni e fumetti che svaniva - dissolvenza irreale della memoria - di fronte a una vita adulta tutta da edificare. I vecchi albi di Topolino lasciavano il posto a fumetti erotici, un padre severo ricordava doveri, strade tracciate dal tempo, tutto cambiava, sembrava impossibile, pareva un sogno imperscrutabile il suo rimpianto. Ela vita si perdeva nel silenzio di notti dispera te d’una camera troppo piccola per contenere dubbi e incertezze. Le parole di Paul Nizan percuotevano i suoi pensieri, uno scrittore mai letto, pure se sapeva a mente la colonna sonora di Avere vent’anni. “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che quella è la più bella età della vita”. Marco non aveva ancora vent’anni. Non avrebbe permesso a nessuno di dire che stava vivendo un’età spensierata. Che ne sapevano del suo mondo? Segreti inconfessabili, paure vissute in silenzio, condanne decretate da tribunali immaginari, dolori confidati a un gabbiano dalla balaustra in ferro battuto d’un piccolo porto, tra teste di molossi dalle quali sgorgava acqua da tempi immemorabili »  (pp. 12-13).

Ma anche  Robert, il gabbiano, sapeva che  avrebbe perduto tutto questo. Come impone l'appartenenza di specie. 


 «Non avrebbe più visto il volo delle rondini nei primi giorni d’aprile davanti al nido, non avrebbe atteso le garzette dalla palude o l’airone cinerino solcare l’infinito. Non avrebbe più udito il canto d’amore delle folaghe dagli stagni del fondo valle, ma neppure avrebbe potuto scrutare i brevi voli delle marzaiole o dell’imprendibile cavaliere. Il suo mondo si faceva da parte in attesa della partenza, del viaggio alla scoperta dell’ignoto. La sua giovinezza tratteneva a fatica una sete d’avventura che non poteva confinare in un territorio angusto, popolato di ricordi. Non aveva amici da salutare e questo era un vantaggio. Alle sue spalle lasciava pensieri e rimpianti del passato, ricordi d’un vecchio padre, il dolore per una madre perduta nel mare della fanciullezza, il disprezzo del branco per la sua diversità. Ma che cosa poteva sapere quel branco di pennuti? Suo padre gli aveva insegnato tutto. Non aveva bisogno di loro per capire il mondo. Per i gabbiani del branco quel panorama di cielo e mare, che si estendeva a toccare angoli riposti di antiche scogliere, doveva esistere per permettere di sopravvivere. Una mentalità utilitaristica, pensava Robert,che ricordava le parole del padre. La sua terra era un insieme di rocce e mare, un silenzio eterno, un tentativo di quiete nei silenzi della sera. Robert aveva sempre cercato di rispettare la volontà della natura» (pp. 40-41).

Abbiamo riportato due citazioni, lunghe ma significative per comprendere lo spirito profondo del romanzo. Che però, ripetiamo, ha una chiave antipedagogica, e  proprio grazie al miracolo di cui si parla nel titolo. Dal momento che  i miracoli, decostruiscono la realtà, fino al punto, talvolta, di farla esplodere (benevolmente esplodere): quella realtà, sulla cui assimilazione,  invece, la pedagogia,  maestra di regolarità esistenziali,  conta e prospera.   Ecco allora  la terza pista del libro, dopo il dolore (incomunicabile) e   le regole ( sociali e di specie), esiste, anche come gaddiana cognizione del dolore,  la possibilità di apprendere l’arte di vivere (attenzione arte, non pavesiano mestiere).    

«Era vero! Aveva imparato a volare! Poteva solcare le strade che aveva percorso da sempre, poteva vedere la cima di palme mai immaginate, tetti e antenne nascoste. Marco volava dietro al gabbiano, con il vento alle spalle, riusciva a tenere la giusta angolazione per non essere spinto lontano. Voleva vedere le fonti della vecchia Marina, il liceo corroso dal salmastro, le case lontane di via del Popolo; voleva andare ai Tre Pini, guardare le strade, le piccole strade annerite e la fabbrica, gigante d’acciaio con i fumi spezzati dal vento;voleva volare in picchiata sul golfo di Salivoli, ricordare suo padre e una bicicletta con un sedile di legno; voleva sentire quel vento sferzargli il volto, sconvolgere i capelli... Robert era il suo maestro. Adesso Marco sarebbe potuto andare ovunque. Poteva finalmente condividere il suo mondo» (113-114).

Da qualche parte abbiamo letto che la vita  ricorda una scalata in montagna: man mano che si sale, tutto appare più chiaro. Il senso dell'insieme continua a sfuggirci,  ma la vista, dall’alto  appare sempre più bella.  Si chiama arte di vivere. Ha a che vedere con l'estetica.  E, cosa più importante, anzi essenziale,  si nutre  di miracoli.

Carlo Gambescia     
       

Nessun commento:

Posta un commento