Google si è subito allineata alla decisione di Trump di cambiare il nome del Golfo del Messico in Golfo d’ America.
Il gigante digitale, che stando alle cronache complottiste, minacciava la nostra libertà, si è inchinato, senza fare una piega alla spada politica.
Il che suggerisce una riflessione. Tutta la letteratura, sul potenziale liberale e illiberale del digitale, sembra avere perso di colpo tutto il suo fascino. Perché?
La tecnologia rinvia all’uso che ne fa l’uomo, e l’uomo agisce sulla base dei più vari criteri, tra i quali c’è il fondamentale criterio politico, che a sua volta rimanda al potere di comandare e di essere obbediti.
Ovviamente il potere politico si basa sulla forza e sul consenso, o comunque su una combinazione sociale di questi fattori. Di conseguenza quanto più il potere è esteso e concentrato, per ragioni di forza o consenso, tanto più diviene difficile per l’individuo micro o macro (dal singolo cittadino al gigante economico) sottrarsi al dovere di obbedienza.
Il che significa che l’ultima parola, piaccia o meno, spetterà sempre alla spada. Si rifletta su un punto preciso: l’essere umano può rifiutare di piegarsi, opponendo a sua volta spada a spada. Il che spiega, almeno in parte, la lunga sequenza storica di guerre e rivoluzioni. E questa è la prima parte del paradosso della spada.
Passiamo alla seconda. Se Google si fosse rifiutata di cambiare la denominazione del Golfo del Messico cosa sarebbe accaduto? Che sarebbero seguite misure punitive. Diciamo illiberali. Un terreno sul quale Trump sembra muoversi a suo agio.
Per capirsi: Google Maps, sul piano formale, può anche essere una meraviglia della tecnologia digitale, però dei suoi contenuti, in ultima istanza, decide la spada politica. Nel caso specifico ha deciso quella sovranista, o per meglio dire dei “patrioti”: si legga pure nazionalisti sfegatati.
Si può osservare che il nostro ragionamento è piuttosto semplicistico. Perché il mondo moderno è caratterizzato da leggi, mercati, scienza e tecnica, nonché da quel fenomeno ideologico conosciuto come liberalismo che sembra giustamente preferire alle pallottole le schede elettorali. Insomma il moderno è una realtà complessa che non disdegna, anzi promuove la pacificazione. Detto altrimenti, il rifiuto dell’uso della spada.
Purtroppo, le intenzioni, per quando buonissime e condivisibili come quelle liberali, non sono sufficienti. La tecnologia, anche come impresa economica, se spinta nell’angolo dalla spada politica, “deve obbedire” con un qualsiasi altro cittadino.
Si potrebbe definire questo nostro tempo, grosso modo, dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, come il nuovo tempo della spada. Del rifiuto, spesso anche grossolano, della pacificazione liberale.
Pertanto appellarsi ai meriti della tecnologia, oppure evocarne i demeriti non serve assolutamente a nulla. Magari nutrendo l'illusione che la tecnologia, per forza propria, condurrà a un’età dell'oro, di pace, eccetera, eccetera.
E qui, come detto, veniamo alla seconda parte del paradosso della spada: perché, come insegna la metapolitica, l’idea di pacificazione liberale, che rimanda al rifiuto della spada, andrebbe difesa proprio sfoderando la spada. Cosa che al liberale ripugna.
Esiste, però – ne abbiamo parlato in un nostro libro (*) – una forma di liberalismo politico, archico, triste, realista, perché costretto ad agire talvolta di controvoglia, ma ad agire. E qui si pensi a una figura come quella di Churchill, che ebbe il coraggio di rispondere alla sfida di Hitler. E vinse. Oppure a liberali come Raymond Aron, lucidissimo, capace, negli anni della Guerra Fredda, di “immaginare il disastro” di un cedimento di tipo pacifista al comunismo sovietico (**). E quindi perfettamente in grado di non sottovalutare, quando necessario, il ricorso alla spada.
Ora, proprio alla luce del liberalismo triste, il paradosso della spada, non sembra privo di logica. Perché una logica c’è. Purtroppo. E si chiama lotta per l’esistenza.
Carlo Gambescia
(*) Carlo Gambescia, Liberalismo triste. Un percorso: da Burke a Berlin, Edizioni Il Foglio, 2012.
(**) Si veda in argomento Jerónimo Molina, L’immaginazione del disastro. Raymond Aron realista politico, Edizioni Il Foglio, 2024.
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