martedì 4 gennaio 2022

Capitol Hill un anno dopo. Le tre Americhe

 


Il J6  (January 6) come lo si chiama negli Usa, sembra essere diventato una data storica, in particolare mitica per i sostenitori di Trump e larga parte dei repubblicani: la cosiddetta America di Trump, diciamo la Prima America. Trump, a quanto sembra, vuole ripresentarsi alle prossime presidenziali.

I suoi sostenitori, ovviamente incoraggiati dallo stesso Trump, vedono il J6, il giorno dell’assalto a Capitol Hill, come quello della lotta per legalità e non del tentativo di un colpo di stato.

Tesi, ovviamente avversata dai democratici e dagli elettori di Biden, la cosiddetta America Liberal, la Seconda America.

Di regola, dal punto di vista della scienza politica, o metapolitica, ogni volta che sono messi drasticamente in discussione i risultati elettorali, disconoscendo la buona fede dell’avversario politico, le istituzioni rischiano di andare in pezzi, di aprire la porta, dopo un periodo di caos, a una dittatura militare.

Per limitarsi al Novecento, così fu nella Spagna del 1936, nei paesi balcanici tra le due guerre, nelle repubbliche sudamericane, in non pochi stati nel vicino e lontano Oriente.

Tutto sommato, si parla di nazioni, inclusa la Spagna degli anni Venti e Trenta, arretrate sul piano delle rivoluzioni liberali, del parlamentarismo, della struttura sociale ed economica, prive di un ceto medio ma per vari motivi con forti tradizioni di interventismo politico e sociale dei militari.

Proprio per queste ragioni, gli Stati Uniti, non dovrebbero temere involuzioni autoritarie. Sono un paese moderno, liberale, con un ampio ceto medio, in cui i militari (pochi) da sempre non escono dalle caserme.

Però, poco dopo la metà dell’Ottocento, una guerra civile durissima sconvolse gli Stati Uniti. Le cui ferite non si sono mai rimarginate del tutto: l’eredità storica della questione razziale non è mai stata risolta, come pure la rabbia sociale di un’America periferica, al Sud e all’Ovest degli Usa, che tuttora disprezza Washington, servendosi di particolari mitologie storiche e religiose.

In molti casi si odia un potere federale che, secondo la vulgata “sudista”, vuole cancellare, o comunque opprimere, le libertà degli stati e dei cittadini perfino nella più piccola contea. Potere, odiato, perché visto come contrario, all’ideale americano di libertà.

Semplificando, i sostenitori intercettati da Trump non vogliono un dollaro dal governo, vogliono soltanto vivere senza subire ciò che viene visto come una vessazione: dalla legislazione, definita “abortista” a quella sulla perequazione delle libertà civili e sull’immigrazione aperta a tutti. Il “politicamente corretto”, insomma.

L’America di Trump è fondamentalista, razzista, antifederalista. L’esatto contrario della visione del mondo dell’America Liberal, sotto le cui bandiere si raccolgono i sostenitori di Biden, relativisti in ambito religioso, antirazzisti, federalisti.

Ovviamente, tra le due tendenze politiche esiste una Terza America, né liberal né fondamentalista, rappresentata dalla maggioranza degli americani, che per ora resta a guardare: non fondamentalista, moderatamente federalista, favorevole, senza però sfiorare il ridicolo, ai diritti civili e all’integrazione razziale e degli emigranti.

Su un punto però la Terza America potrebbe trovare un’ importante canale di comunicazione elettorale con l’America di Trump, la Prima,  quello dell’isolazionismo. Del tirarsi fuori da tutte le contese mondiali per ragionare nei termini di una semiautarchia economica, aperta a misuratissimi rapporti bilaterali con le altre nazioni.

Siamo davanti a un processo del genere: più la politica estera americana si apre al mondo, in senso economico e politico, più la Terza America, politicamente moderata, turandosi il naso, potrebbe volgersi a Trump (e alla sua America, la Prima).  Un Trump  che, come detto, vuole ricandidarsi.

 

Perciò, proprio dalla politica estera, potrebbe provenire il progressivo isolamento politico dell’America Liberal di Biden.

Tuttavia gli Stati Uniti sono una potenza mondiale e non possono ritirarsi sulla collinetta di Jefferson. Pertanto l’atteggiamento di Trump è utopistico. Il che però non significa che non porti voti.

Molti osservatori della situazione americana si dedicano soprattutto alle questioni ideologiche, politiche e sociali interne, trascurando gli effetti di ricaduta sull’elettorato della politica estera.

In realtà, la rivolta contro il “politicamente corretto” riguarda solo la Prima America che vota Trump. Non ci si rende conto invece che la politica estera di Biden, ad esempio di una possibile escalation economico-militare in favore dell’Ucraina, minacciata da Putin, rischia di portare voti a Trump: i voti di una Terza America che non è trumpiana, ma che però è isolazionista.

Di qui, come detto, la possibile saldatura elettorale tra Prima e Terza America, eccetera, eccetera.

Sotto questo profilo, la partita di Biden è molto più difficile di quella di Trump.

Ne sarà all’altezza?

Carlo Gambescia

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