mercoledì 27 ottobre 2021

NOVECENTO, IL "SECOLO DELLE PENSIONI"

 

 


Se si ripercorre la storia delle  pensioni nel Novecento, si scopre che rispetto al passato questo  secolo potrebbe essere denominato il “Secolo delle Pensioni”.  

Perché?  Per  l’incredibile sviluppo  che ha avuto in Occidente, e di riflesso, dove si è ripreso il  modello, l’istituto sociale della pensione.

In sostanza, l’idea è nobile.  Si tratta di assicurare la continuità  di esistenza economica, come la dignità sociale, a  tutti i lavoratori di ogni ordine e grado,  una volta dismessi per sempre gli abiti   (mentali)  da lavoro.  

Tuttavia la pensione  che  è  una forma di rendita vitalizia,  ha assunto nel tempo  una estensione collettiva, sconosciuta  in passato, se non come rendite concesse individualmente dai sovrani regnanti, soprattutto in età moderna, a particolari personalità pubbliche per i servigi resi.  

Una curiosità:  nell’antica Roma, in particolare nei primi due secoli di consolidamento dell’ Impero, soprattutto durante la dinastia degli Antonini,  si procedeva a distribuzioni gratuite  di grano e altri generi alimentari, talvolta anche di  denaro, ai cittadini romani.

Nel Novecento, soprattutto nella  seconda parte, alcune costituzioni, come quella italiana ad esempio all’articolo 38, hanno recepito una specie di diritto costituzionale alla pensione  ponendo sullo stesso piano  la  malattia e la vecchiaia, perché giudicata come causa  di inabilità al lavoro.      

Senza entrare  troppo nei  dettagli, il finanziamento delle pensioni  si è gradualmente trasformato, a causa dell’invecchiamento della popolazione, soprattutto dove i sistemi pensionistici  sono pubblici (cioè finanziati attraverso le imposte), in un crescente appesantimento della spesa  sociale  costretta a colmare la differenze contributive nel rapporto  tra  popolazione lavorativa (sempre di meno)  e non lavorativa (sempre di più).

Di qui, una serie di escamotage politici e statistici  per  chiudere, o comunque  alleggerire, le falle  nei bilanci degli enti previdenziali pubblici.

Forme di altissima ingegneria  pensionistica  che ora sono al centro del dibattito  politico,   come   la cosiddetta quota  cento, nel senso di 62 anni + 38 di lavoro per andare in pensione. O l’Ape sociale,  un sistema che permette a coloro che svolgono un lavoro usurante di andare in pensione a 63 anni, invece che a 67,  con soli  30 anni di contributi, godendo di una indennità mensile, più  o meno congrua, fino a 67,  erogata dallo stato.

Per capire la scarsa  qualità sociologica  di un  dibattito, che sostanzialmente  è pura  e semplice  questione di spartizione corporativa della spesa e del consenso  pubblico, si pensi che i lavori usuranti, sono definiti  sulle basi di una lista  di lavori gravosi redatta  in base ai criteri Inail.

Parametri  che rinviano  a  tre  indici del cosiddetto  “mansionario Istat”: a) frequenza degli infortuni rispetto alla media; b) numero di giornate medie di assenza per infortunio; c) numero di giornate medie di assenza per malattia.

Lasciamo  al lettore il giudizio sulla natura approssimativa di uno schema del genere,  classico esempio di uso frettoloso di dati approssimativi: ad esempio, non tutti gli infortuni sono denunciati, e non tutti, anzi la maggior parte,  sono gravi.

Ora, probabilmente per pure ragioni di consenso politico, si vorrebbe estendere, lo schema, al momento riservato ad alcune categorie (come   ad esempio  operai dell'industria estrattiva, dell'edilizia, della manutenzione degli edifici, conduttori di gru, eccetera),  a  bidelli,  tassisti, falegnami, conduttori di autobus e tranvieri, benzinai macellai, panettieri, insegnanti delle scuole elementari, commessi e cassieri, operatori sanitari qualificati, magazzinieri, portantini, forestali.  Praticamente a tutti... E per pure ragioni di consenso politico. Nemmeno troppo nascoste

E qui sarà interessante seguire le scelte del liberalsocialista (così si definisce) Mario Draghi...

Questo per dire  come il “Secolo delle Pensioni”  sia in realtà il secolo della demagogia. Un principio, in fondo umanitario,  quello dell’assistenza alle persone non in condizione di lavorare, che può essere assolto in forma pubblica e privata, addirittura attraverso iniziative benefiche e  caritatevoli,  si è trasformato in un prepotente  diritto sociale   implementato dallo stato e, cosa più grave, in una velenosa risorsa politica capace di  garantire il consenso ai vari governi di sinistra come di destra.

Altro che il vecchietto con la mano tremula, vestito di stracci, secondo la raffigurazione dei padri della costituzione italiana.  Oggi i sessantenni se ne vanno, chimicamente baldanzosi, a Cuba e in Brasile...   

La riforma delle pensioni, di cui si  parla tanto, non è altro  che  una finestra aperta sul vuoto di una spartizione tribale  di risorse pubbliche,  sempre più limitate, non solo perché, come si dice,  la popolazione  invecchia, ma invecchia bene, e quindi, vuole godersi la pensione.  

Di qui, la lotta sull’anno in più o sull’anno in meno, eccetera, eccetera.  Conflitto  che  nulla toglie a quello che è il principale problema dell’Occidente:  che nessuno vuole lavorare un minuto in più, per non sottrarre tempo al  godimento di   beni, non più prodotti, però, come un tempo,  in Occidente.

Si vuole vivere di rendita, il più a lungo possibile e  se possibile alla grande.  Intaccando però il capitale…  

Fino a quando?

Carlo Gambescia                     

 

Nessun commento:

Posta un commento