Matrimoni gay. Atto Terzo (*)
E i figli dove li metto?
L’amica Tere Gamez, sforzandosi
addirittura di scrivere in italiano (lei messicana, che brava!) ha forse posto la questione più interessante e in
termini molto semplici, direi elementari: che ne sarà dei figli all’interno del
matrimonio gay?
Ogni ragionamento in argomento si
muove su fragili palafitte. Dal momento che si tratta di un fenomeno recente, poco
studiato, e se indagato (ad esempio, con riguardo alla situazione spagnola) la base
osservativa è troppo ridotta (temporalmente e quantitativamente) per dare giudizi
esaustivi.
Pertanto, anche a causa dei vuoti empirici, ogni “partito” tira la classica coperta troppo corta dalla
propria parte, rilanciando di volta in volta su argomenti religiosi, etici, filosofici (la questione della tecnica)
storici, antropologici, psicologici e psicoanalitici. Argomenti,
anche per le mie ridotte competenze, nei
quali non desidero entrare. Per abitudine
di vita, parlo solo di ciò che conosco, o se si
preferisce, che ho studiato. Fermo restando, ovviamente, il mio giudizio sull'inutilità delle discussioni di "primo livello".
Diciamo che forse proprio per il deficit nella letteratura sociologica in argomento, la politica - una politica rigorosa che si documenta e studia prima di decidere - avrebbe dovuto procedere più lentamente
sulla via del riconoscimento, cercando di
evitare, su temi tra l’altro culturalmente molto caldi, le prove muscolari a colpi di democrazia
maggioritario-referendaria (che attenzione è un’arma a doppio taglio, perché
ora vale per coloro che sono a favore, ma di qui a qualche anno potrebbe altrettanto valere per coloro che sono contro): il voto talvolta se troppo divisivo, può
essere l’anticamera della guerra civile,
ossia delle pallottole. Le democrazie
dovrebbero essere in qualche modo protette da queste derive elettorali. Ma questa
è un’altra storia.
Del resto, come ignorare che
una volta “passato” il matrimonio, sarebbe “passata” anche la richiesta
di poter avere prole? Grave
imprevidenza "politica", insomma. Di qui, i noti problemi e preoccupazioni, soprattutto
per i credenti e per difensori delle
famiglia - come si legge - senza aggettivi.
Come ho cercato di mettere in
luce nei precedenti articoli, sotto il
profilo sociologico, il principale
problema è rappresentato dal costruttivismo sociale, che è alla base del contemporaneo stato-macchina dei diritti:
più diritti, più regole, più regole più
amministrazione, più amministrazione più burocrazia, più burocrazia più
ritardi, corruzione, errori procedurali e, dulcis in fundo, tasse. Inoltre, l’implementazione dei diritti dall’alto,
favorisce un meccanismo a spirale di tipo emulativo, per il quale tutti si sentono
autorizzati a sfidare lo stato, non per surrogarlo,
ma
per ottenere un qualche riconoscimento a spese degli altri gruppi e
comunque di tutti i cittadini: perché, sia chiaro, lo stato dei diritti sociali
ha costi crescenti, per alcuni inarrestabili.
Si dirà i diritti sono il sale
democrazia. Giusto. E che se non si sperimentano
nuove forme di aggregazione sociale, mai si potrà valutarne gli effetti.
Altrettanto giusto. Però, come mi chiedevano ieri altri amici lettori (Buffagni, Pompei, Ermini) deve esistere un qualche limite all'arroganza umana. Sì, un limite c’è, di
fatto, sociologico: ed è quello del
crescente potere dello stato-leviatano (in tutte le sue forme storiche,
dall’Impero allo stato moderno per elencarne solo due), fenomeno ricorrente nella storia, prima causa di
corruzione e decadenza.
Che fare? Auto-organizzarsi,
fin dove possibile ovviamente, ma al di
fuori della forma-stato, senza pietire alcun riconoscimento pubblico. Si pensi al processo storico che ha portato
alla tradizione del Common law o che è dietro la gestazione della Lex
mercatoria. Puntare insomma sullo spontaneismo
sociale, rivalutando i patti privati, le associazioni private, i giurì,
eccetera. Se famiglia gay dovrà essere, che si parta dalle piccole e libere comunità, senza alcun riconoscimento pubblico.
Sperimentazione, come nella storia sociologica dei gruppi religiosi, ovviamente non solo cristiani. Naturalmente, accettando i rischi dell’imprenditore “sociale”, come quando si cerchi di conquistare nuovi mercati (se
ci si passa la metafora): nessuna
scelta è gratis, nessuno può garantirne la riuscita, né, peraltro, ci si deve stupire del fatto che gli oligopoli sociali esistenti tentino, a loro volta, di boicottare la nascita di un nuovo soggetto. La vita sociale è rischiosa. E la libertà implica senso di responsabilità.
So benissimo che nei paesi
di Diritto romano, con forti tradizioni statali (qualcuno direbbe stataliste), quanto ho appena detto è
considerato utopistico. E nell’attuale situazione, probabilmente lo è. Però francamente - esprimo un’opinione
personale (di primo livello) - non
vedo alternativa allo stato-macchina
dei diritti, se non quella di ritornare, sul piano cognitivo, allo studio ( e apprezzamento) delle origini dei processi sociali,
come fattori di spontaneo mutamento, e,
sul piano pratico, alla libera e creativa auto-organizzazione dei diversi gruppi sociali, quale meccanismo capace di creare e gestire diritti, guadagnati sul campo, senza elemosinarli da alcuna autorità costituita. Basta, insomma, con lo stato etico e amministrativo, di qualsiasi colore politico sia: fascista, comunista, laico, cristiano, maomettano, eccetera.
Nessun commento:
Posta un commento