giovedì 28 maggio 2015

Matrimoni gay. Atto Terzo (*)
E i figli dove li metto?



L’amica Tere Gamez, sforzandosi addirittura di scrivere in italiano (lei messicana, che brava!) ha forse  posto la questione più interessante e in termini molto semplici, direi elementari: che ne sarà dei figli all’interno del matrimonio gay?
Ogni ragionamento in argomento si muove su fragili palafitte.  Dal momento che si tratta di un fenomeno recente, poco studiato, e se indagato (ad esempio, con riguardo alla situazione spagnola) la base osservativa è troppo ridotta (temporalmente e quantitativamente) per dare giudizi esaustivi.
Pertanto,  anche  a causa dei vuoti  empirici, ogni “partito”  tira la classica coperta troppo corta dalla propria parte, rilanciando  di volta in volta su argomenti religiosi, etici,  filosofici (la questione della tecnica) storici, antropologici, psicologici e psicoanalitici.  Argomenti,  anche per le mie ridotte competenze,   nei quali non desidero entrare.  Per abitudine di vita, parlo solo di ciò che conosco,  o  se si preferisce, che ho studiato. Fermo restando, ovviamente, il  mio giudizio sull'inutilità delle discussioni di "primo livello".
Diciamo che forse  proprio per  il deficit nella letteratura sociologica in argomento, la politica - una politica rigorosa che si documenta e studia prima di decidere -   avrebbe dovuto procedere più lentamente sulla via del riconoscimento, cercando di  evitare, su temi tra l’altro culturalmente molto caldi,  le prove muscolari  a colpi di democrazia maggioritario-referendaria (che attenzione è un’arma a doppio taglio, perché ora vale per coloro che sono a favore, ma di qui a qualche anno potrebbe altrettanto valere per coloro che sono contro): il voto talvolta se troppo divisivo, può essere l’anticamera  della guerra civile, ossia delle pallottole.  Le democrazie dovrebbero essere in qualche modo protette da queste derive elettorali. Ma questa è un’altra storia.     
Del resto,  come  ignorare che  una volta “passato” il matrimonio, sarebbe “passata” anche la richiesta di poter avere  prole? Grave imprevidenza "politica", insomma.  Di qui,  i noti problemi e preoccupazioni, soprattutto per i credenti e per  difensori delle famiglia -  come si legge - senza aggettivi.
Come ho cercato di mettere in luce nei  precedenti articoli, sotto il profilo sociologico, il  principale problema è rappresentato dal costruttivismo sociale, che è alla base  del contemporaneo stato-macchina dei diritti: più diritti, più regole, più regole  più amministrazione, più amministrazione più burocrazia, più burocrazia più ritardi,  corruzione,  errori procedurali e, dulcis in fundo,  tasse. Inoltre, l’implementazione dei diritti dall’alto, favorisce un meccanismo a spirale di tipo emulativo, per il quale tutti si sentono autorizzati  a sfidare lo stato, non per surrogarlo,   ma  per ottenere un qualche  riconoscimento a spese degli altri gruppi e comunque di tutti i cittadini: perché, sia chiaro, lo stato dei diritti sociali ha costi crescenti, per alcuni inarrestabili.
Si dirà i diritti sono il sale democrazia. Giusto. E che  se non si sperimentano nuove forme di aggregazione sociale, mai si potrà valutarne gli effetti. Altrettanto giusto. Però, come mi chiedevano ieri altri amici lettori (Buffagni, Pompei, Ermini)  deve esistere un qualche limite all'arroganza umana. Sì, un limite c’è, di fatto, sociologico:  ed è quello del crescente potere dello stato-leviatano (in tutte le sue forme storiche, dall’Impero allo stato moderno per elencarne solo due),  fenomeno ricorrente nella storia,  prima causa di corruzione e decadenza.
Che fare? Auto-organizzarsi, fin dove possibile ovviamente, ma  al di fuori della forma-stato, senza pietire alcun riconoscimento pubblico.  Si pensi al processo storico che ha portato alla tradizione del Common law o che è dietro la gestazione della Lex mercatoria.   Puntare insomma sullo spontaneismo sociale, rivalutando i patti privati, le associazioni private, i giurì, eccetera. Se famiglia gay dovrà essere, che si parta dalle piccole e libere  comunità, senza alcun riconoscimento pubblico. Sperimentazione, come nella storia sociologica dei gruppi  religiosi, ovviamente non solo cristiani.   Naturalmente,  accettando i rischi  dell’imprenditore “sociale”, come quando si cerchi di conquistare nuovi  mercati (se ci si passa la metafora):  nessuna scelta  è gratis,  nessuno può garantirne la riuscita, né, peraltro,  ci si deve stupire del fatto che gli oligopoli sociali esistenti  tentino, a loro volta, di  boicottare la nascita di un  nuovo soggetto. La vita sociale  è  rischiosa.  E la libertà implica  senso di  responsabilità.   
So benissimo che nei paesi di Diritto romano, con forti tradizioni statali (qualcuno direbbe stataliste), quanto ho appena detto è considerato utopistico. E nell’attuale situazione, probabilmente lo è.  Però francamente - esprimo un’opinione personale (di primo livello) -  non vedo alternativa  allo stato-macchina dei diritti, se non quella di ritornare, sul piano cognitivo,  allo studio ( e apprezzamento) delle origini dei processi sociali, come fattori  di spontaneo mutamento, e, sul piano pratico, alla libera e creativa auto-organizzazione  dei diversi gruppi sociali,  quale  meccanismo capace di creare e gestire  diritti, guadagnati sul campo,  senza  elemosinarli  da alcuna autorità costituita.  Basta, insomma, con lo stato etico e amministrativo, di qualsiasi colore politico sia: fascista, comunista, laico, cristiano, maomettano, eccetera.  

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