Profili/5
John Kenneth Galbraith
I giudizi sull'opera di John Kenneth Galbraith (1908)
sono discordanti. Per gli economisti di area liberale (nel senso europeo del
termine), e ovviamente per i liberisti più accesi, l'economista americano resta
un pericoloso teorico dell'interventismo statale. Per gli economisti non
ortodossi (socialisti, marxisti, ecologisti, comunitaristi e per i nuovi
teorici della "decrescita") rimane invece un fautore dello
"sviluppismo" economico. Infine per la scuola istituzionalista
americana (che, grosso modo, è su posizioni politico-economiche
socialdemocratiche) resta un maestro. Con una eccezione: i "nuovi
istituzionalisti" (attenti all'uso degli strumenti matematici) ne
criticano il "romanticismo economico", e l'approccio più storico che
modellistico.
La verità, come sempre, è nel mezzo. Galbraith, famiglia
di origine scozzese, ma nato in Canada, Ontario, prima giovane studioso di
economia agricola, e poi professore di economia tout court a Harvard
(1948-1975), ha sempre ritenuto lo Stato l' istituzione (se non proprio la
sola) capace di difendere progresso sociale, giustizia e sviluppo, minacciati
dalle forze più retrive ed egoiste del capitalismo, rappresentate dalle grandi
imprese monopolistiche.
A Galbraith si deve quello che ancora oggi è il miglior
libro sul capitalismo americano: American Capitalism (1952), dove
descrive realisticamente i processi di concentrazione del potere economico
nelle mani di ristretti gruppi di capitalisti e la conseguente e preziosa opera
di bilanciamento politico di Stato e Sindacato.
In certo senso Galbraith, che poi tornerà sul tema in
libri importanti come The Affluent Society (1958), The New
Industrial State (1968), Economics and the Public Purpose
(1973), The Nature of Mass Poverty (1980), reputa che il mercato da
solo non basti: occorrono correttivi pubblici. Il suo "teorema" è il
seguente: senza Stato, non c'è sviluppo, e senza sviluppo, non c'è capitalismo.
O meglio, se lo Stato non svolge il suo ruolo (di indirizzo e controllo), lo
sviluppo si orienta verso la produzione di beni privati a danno di quelli
pubblici. Il numero dei ricchi cresce, ma quello dei poveri ancora di più:
all'opulenza privata si affianca lo squallore pubblico. Da questo punto vista
Galbraith è straordinariamente vicino, anche se non lo ha mai ammesso, alle
tesi di Marx sulla pauperizzazione della società capitalistica. Con una
differenza: Marx la credeva ineluttabile, Galbraith gestibile, se non proprio
superabile, grazie all'opera redistributrice (attraverso la leva fiscale) dello
Stato, e dunque, di un più equo sviluppo economico.
Galbraith pone comunque un problema. Quello della
necessità di macrostrutture "politiche" in grado di opporsi alle
macrostrutture "economiche" del capitalismo: i "movimenti
sociali" sono importanti, ma da soli non bastano... Però non ne vede un
altro, ancora più importante: quello dei limiti (soprattutto ecologici) dello
sviluppo economico "infinito".
Le sue opere in Italia sono tradotte da Etas, Einaudi,
Bollati Boringhieri, Mondadori, Rizzoli. Galbraith è un autore prolifico ha
scritto decine di libri e collaborato con i più diversi giornali e riviste, dal
"New York Times" a "Palyboy". Su di lui si veda
l'importante lavoro di Richard Parker, J.K.G: His Life, His Politics, His
Economics, Farrar, Straus and Giroux, New York 2005, pp. 820 (sales@fsgbooks.com).
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento