Il libro della settimana: Eric Voegelin, Hitler e i tedeschi, pref. di Riccardo De Benedetti, Edizioni Medusa, Milano 2005, pp. 264, Euro 24,00.
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Eric Voegelin è probabilmente il filosofo politico più
complesso e affascinante del XX secolo. Nasce a Colonia (1901), studia a
Vienna, esule dal 1938 negli Stati Uniti, torna in Germania nel 1958, muore
negli Stati Uniti nel 1985, dove era ritornato nel 1969, Nei suoi numerosi
scritti la storia delle idee politiche e sociali è studiata alla luce di tre
concetti fondamentali (ovviamente si semplifica): trascendenza, rappresentanza
ed esistenza. Tre forme idealtipiche ( non però nel senso della sociologia
"operativa" weberiana) che esprimono, e riassumono, l'esperienza
simbolica dell'uomo, come interiorizzazione e pratica di vita. Pertanto questo
libro appena pubblicato dalle Edizioni Medusa (edizionimedusa@tiscalinet.it),
che riprende integralmente il 31° volume delle sue Opere complete (University
of Missouri Press, Columbia 1999) si rivela utilissimo, per due motivi.
Il primo, perché offre un'interpretazione filosofica,
della tragedia tedesca, che sulla scia di Hannah Arendt, riconduce la cosidetta
"banalità del male" in cui si esaurì il totalitarismo bruno,
nell'alveo più generale del rifiuto di ogni forma di trascendenza da parte dei
moderni.
Il secondo, perché permette di capire da vicino, come
"funzionano" sul piano dell'indagine filosofica concreta, le
categorie interpretative di Voegelin. In questo senso Hitler e i tedeschi
è una buona introduzione alla filosofia politica voegeliniana.
Perché, nella Germania nazionalsocialista, si chiede
Voegelin, si giunge a praticare il "male", come un elemento di pura
amministrazione burocratica? Per due ragioni.
In primo luogo, perché come per tutto l'immanentismo
moderno, anche Hitler si colloca tra coloro che rifiutano la trascendenza come
riconoscimento nell'uomo di un elemento divino-umano-divino, che in termini di
"imago Dei", lo accomuna ai suoi simili
In secondo luogo, perché il rifiuto della trascendenza,
visto che l'uomo non può vivere (in termini di valori "rappresentati
simbolicamente" e "vissuti esistenzialmente" ) senza
"credere", favorisce la sostituzione della religione trascendente con
la "religione immanente" o politica fondata su pseudo-valori come
razza, stato, ideologia, che invece di unire (in nome di una comune umanità)
dividono gli uomini. Di qui l'automaticità, la normalità, la
"credibilità" (con tutto quello che ne consegue sul piano
pratico-burocratico) dell'idea di una necessaria divisione tra gli uomini, ma
anche della paradossale necessità di sopprimerla, una volta per tutte,
eliminando non le divisioni, in nome della comune umanità, ma sopprimendo
quegli uomini che "rappresentano", solo con la propria
"esistenza" (il semplice "esistere"), idee contrarie, a
quella pseudo-religiose dominanti.
Merita una lettura attenta anche l'ottima introduzione di
Riccardo De Benedetti, che oltre a restituire il vero spirito dell'opera
voegeliniana, ne evidenzia tutta l'attualità. Che consiste nella necessità di
tornare a credere nella trascendenza vera, e non in quella mascherata, ieri
rappresentata dalle religioni politiche, e oggi da quella economica,
incarnatasi nel culto efficientistico del mercato.
Carlo Gambescia
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