martedì 27 dicembre 2022

L’infantilizzazione del discorso pubblico

 


Oggi sulla “Stampa” Vito Mancuso risponde a Michela Murgia che critica l’ “infantilizzazione di Dio da parte del cristianesimo”. Il primo è un teologo progressista, la seconda è altrettanto progressista ma tuttologa (*).

La polemica in sé è priva di qualsiasi importanza, ma resta indicativa dal punto di vista della sociologia della conoscenza, in particolare della sociologia del discorso pubblico. Dal momento che se proprio vogliamo parlare di infantilizzazione, cioè di una superficialità di approccio alle grandi questioni, come quando si cerca di spiegarle ai bambini, il livello del nostro dibattito pubblico è veramente infantile.

Di chi è la colpa? Innanzitutto, della diffusa pretesa – sbagliata – che tutti possano parlare di tutto. Il che spiega perché Michela Murgia, si ritenga autorizzata a dire la sua un argomento complesso di natura teologica. Ma anche Mancuso è colpevole, perché da progressista, ritiene che tutti possano parlare di tutto, perché segno di uguaglianza. Di conseguenza si sente doverosamente autorizzato a rispondere semplificando. Cioè scende sullo stesso terreno dell’interlocutore, infantilizzando e infantilizzandosi.

Si tratta di un fenomeno che abbraccia anche altre forme di sapere complesso, dalle scienze sociali alle scienze mediche. Con risultati disastrosi, studenti che pretendono di saperne più dei professori, come pure i pazienti nei riguardi dei medici, e così via. In fondo che ci vuole? Basta un giretto su Internet e il gioco è fatto. Un principio pseudo cognitivo che vale per la Murgia come per qualsiasi sofferente di coliche renali.

Si può uscire dal vicolo cieco infantilista? No, almeno per ora.

Per la semplice ragione che si dovrebbe rinunciare allo straripante credo ugualitarista. La cui diffusione totalitaria, o quasi, ha semidistrutto un importante  principio cognitivo, che è alle basi stesse della civiltà, non solo occidentale: che chi sa deve insegnare a chi non sa. Ciò significa che chi non sa deve applicarsi, apprendere, e poi a sua volta, eccetera, eccetera.

Ovviamente, come storia e sociologia insegnano, c’è chi approfitta, tramutando la cultura in potere, giocando con le paroline “magiche” in favore del principe, democratico o meno. Però la risposta giusta non può essere quella di far giocare tutti con le parole difficili, ovviamente non più tali, proprio per poter essere evocate da tutti. Il che ha generato una specie di corto circuito dell’ignoranza collettiva. O meglio di una presuntuosa ignoranza di massa.

Ci potrà salvare il “merito”, proclamato, come carta vincente, dall’attuale governo di destra? Il merito rimanda a comportamenti sociali che possono essere premiati o puniti secondo una certa scala di valori. Che mutando influisce sui giudizi di merito. Il giudizio sull’abilità nel saper fare soldi è profondamente diverso a seconda dei valori che sono professati, socialisti o liberali ad esempio. Di qui altre divisioni, diciamo ideologiche, sullo stesso concetto di merito.

Se alle divisioni ideologiche si aggiunge il disconoscimento, in nome dell’uguaglianza, del “chi sa che deve insegnare a chi non sa”, come si può intuire, le nostre società rischiano per un verso l’infantilizzazione e per l’altro la paralisi sociale.

Come uscirne allora? Serve un atto di umiltà, proprio da parte degli intellettuali, che devono evitare l’infantilizzazione del discorso pubblico. Come pure da parte dei frequentatori della Rete, che devono prendere atto delle gerarchie cognitive.

Dopo di che basterà lasciar fare a quel gigantesco setaccio naturale che è rappresentato dall’ interazione sociale tra individui. Una selezione naturale dei meriti sul “campo” che dà esattamente, una volta esclusi i casi limite, a ciascuno ciò che merita in termini di intelligenza e volontà, anche come capacità di trasformare una sconfitta in vittoria. E quindi, come si diceva un tempo, di comportarsi da uomini e non da bambini.

Carlo Gambescia

(*) Qui (il taglio basso): https://www.giornalone.it/prima-pagina-la-stampa/  .

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