domenica 10 luglio 2022

Leo Ferrero, un “privilegiato” sotto il fascismo…

 


Per  ragioni di lavoro (mi resta però difficile indicare il punto preciso del confine tra lavoro e piacere di leggere e studiare)  ho letto un magnifico testo di Leo Ferrero, figlio di Guglielmo Ferrero e Gina Lombroso, scomparso nel 1933 negli Stati Uniti a soli 29 anni.  Il titolo,  Diario di un privilegiato sotto il fascismo,  tra l’altro scaricabile da Wikisource (*), rimanda alle sue note,  prese tra il  1926 e il 1927  sotto l’incalzare dei controlli della polizia fascista.   

Due precisazioni:

La prima. Leo Ferrero resta un autentico enfant prodige. A meno di trent’anni si era fatto conoscere, addirittura fuori d'Italia, in particolare in Francia, di cui conosceva benissimo la lingua, per la sua capacità di scrittura, una cultura vivace ma non straripante e  un non comune spirito di osservazione. 

Laureato in storia dell’arte, autore di articoli, note,  saggi, opere teatrali,   si trovò ad assistere in prima persona al  proliferante  sviluppo illiberale dell’epidemia fascista.  Il virus dilagava,   abbattendosi anche  sulla sua famiglia.  Parliamo della più giovane sorella Nina e soprattutto  di due genitori eccezionali, fuori della norma: il padre Guglielmo, storico, sociologo, filosofo, allora conosciuto in tutto il mondo, probabilmente più all'estero che in Italia; la madre Gina, figlia del grande Cesare Lombroso,  nota studiosa di questioni sociali.  

 Leo, in sintesi, era il nipote di Lombroso.   E credo di aver detto tutto.

La seconda. Il quadro  che egli  traccia comprova la  persecuzione sottile, perfida,  insozzata da minacce di confino, controlli continui, spaziali, fisici, fino al  ritiro del passaporto. Misure avvilenti  nei riguardi di un intellettuale come Guglielmo Ferrero che non volle concedere  nulla a Mussolini.  Si potrebbe parlare della splendida e tranquilla forza della  resistenza passiva. Che si  trasformò in vittoria o quasi... Finalmente nel 1930 Ferrero, grazie alle pressioni di personalità estere,   riuscì a riavere il passaporto e  trasferirsi in Svizzera, per insegnare storia all’Università di Ginevra.

Leo, invece, aveva già  lasciato l’Italia nel 1927,  per spostarsi in  Francia.  Poi nel 1932 negli Stati Uniti. Dove  scoprì le scienze sociali. E vi  morì a causa di un incidente automobilistico, avvenuto nei dintorni di Santa Fe (New Mexico), dove si trovava per approfondire, nell’ambito di una ricerca  universitaria,  l’impatto sulle  popolazioni indiane della modernità industriale. Mi piace immaginarlo come un mancato grande sociologo o antropologo. Anche contro la sua volontà.  Infatti fu piuttosto scettico nei riguardi della sociologia, ma chissà...  

Alcuni passi del suo Diario meritano di essere citati, perché sintetizzano bene  il ruolo della macchina poliziesca durante il fascismo.  

 Anno 1926.

 14 Dicembre.

Ieri lunedì papà aveva un appuntamento dal dentista, alle sedici. Quando esce alle diciassette fa cenno a una vettura. Un signore gli si accosta gentilmente e chiede di salire con lui. Papà si rivolta:

«In automobile con me non ci voglio nessuno».

«Sono un agente, questi sono gli ordini».

«Se vuol seguirmi prenda un altro automobile».

«Non ho ordini in proposito».

«Allora andiamo tutti e due a piedi».

Papà rientra furioso, scrive una lettera al Prefetto protestando. Nessuna risposta.  Due agenti si sono installati davanti al cancello del giardino e seguono papà quando si muove. Papà dichiara che non uscirà più.

 

20 Dicembre.

Stamane papà trova due agenti in giardino che passeggiano davanti alla casa.

«Via di qua! Chi vi ha dato il permesso di entrare qui dentro?».

«I nostri superiori».

«Violazione di domicilio, articolo 161 del codice penale. I poliziotti hanno il diritto di arrestarmi, di seguirmi ma non di stare nel mio giardino».

«Lei ha ragione. Scriva al Questore, noi saremmo felicissimi di obbedirla, ma questi sono gli ordini».

Papà scrive al Questore e al Prefetto:

«Articolo 161, codice penale. Gli agenti hanno diritto di seguirmi, diritto di arrestarmi, ma non di violare il mio domicilio»

 

21 Dicembre.

Il Questore, il Prefetto non rispondono alla lettera, non sono mai in Questura o in Prefettura quando papà telefona. Oltre ai due poliziotti che gironzolano pel giardino, ce ne sono due altri davanti al cancello del viale: essi interrogano gli amici che vengono da noi, e ne scrivono nome e cognome su un librettino. Fantastico quanta impressione fanno sul pubblico due loschi individui che ti interrogano.

22 Dicembre.

Papà non cessa di telefonare di tempestare di lettere il Questore e il Prefetto. Finalmente oggi viene un messo del Prefetto: «Papà non si inquieti, i poliziotti verranno tolti o almeno nascosti in modo che non offendano nè lui nè la legge; il Questore non ha capito... Lei intende... dopo la fuga di Turati  se lei se ne andasse, sarebbe una faccenda più grave ancora; tutti noi saremmo dimessi, dal Prefetto, dal Questore, fino all’ultimo poliziotto »

«Ma io non ho mai avuto l’intenzione di andarmene — dice papà al Commissario prefettizio — . Loro leggono le mie lettere, loro sanno benissimo che ho rifiutato parecchie offerte vantaggiose per vendere la mia villa. Se volessi andarmene comincerei col liberarmi dei beni stabili che posseggo. Loro che leggono tutto, che sanno tutto sapranno che io ho pubblicato il primo volume di un romanzo e che sto pubblicando il secondo (e glielo mostra) a cui sto lavorando da dieci anni. Quando mai un autore lascia il suo paese proprio al momento della pubblicazione del suo libro? E poi io sono uno dei pochi che vedono chiaro nelle faccende pubbliche del mio paese. Un figlio non lascia la madre quando la vede malata e sanguinante».

«Per carità non si lasci sfuggire di questi paragoni, l’Italia non è mai stata così fiorente, ma i suoi argomenti sono ottimi... Io, lei capisce, condivido perfettamente le sue idee, sono della sua generazione... Personalmente sono un suo grande  ammiratore. Leggo sempre i suoi articoli nella «Illustrazione Italiana» (sono vent’anni che papà non ci scrive più). Perchè non chiede un’udienza al Prefetto? Perchè non ripete al Prefetto quello che ha detto a me?».

«Ci penserò».

«Ad ogni modo siamo d’accordo col Questore, i poliziotti oggi stesso le saranno tolti dal giardino».

Il messo del Prefetto parte e i poliziotti restano.

 

Anno 1927

 

10 Marzo - Milano.

Mercoledì stavamo facendo colazione a Torino dalla nonna, quando Teresa (la cuoca) entra in sala da pranzo spaventata: «Si affaccino al balcone, l’angolo della strada è nero di poliziotti, ci sono poliziotti nella scala, poliziotti in portineria». La nonna è inquieta, papà la calma, telefona in Questura. «Loro si sono sbagliati, avevo la sorveglianza due  mesi fa, mi fu tolta per ordine espresso del Capo del Governo». «Vada dal Prefetto. Noi abbiamo ricevuto questi ordini dal Prefetto».

Il papà telefona al Prefetto. Il Prefetto non risponde. E’ evidente che c’è un equivoco, ma la nonna è assai impressionata. Giovedì decidiamo di partire. Lasciamo Torino in mezzo a un nugolo di poliziotti che ci seguono in treno, che si insediano anzi nel nostro stesso scompartimento. Un altro nugolo di poliziotti ci aspetta a Milano alla stazione, si insedia nel nostro albergo, ci sorveglia nella «hall» a terreno, passeggia nel corridoio che dà accesso alle nostre stanze; un agente pretende anche di venire nella nostra automobile. Siamo obbligati a camminare a piedi. Che cosa è successo? Papà telefona al Prefetto. «Parta subito per Firenze». «Là le saranno date istruzioni». 

12 Marzo - Milano.

Papà aveva deciso di restare qui fino al 16, ma poiché Mondadori non precisa quando il romanzo uscirà decidiamo di partire. Papà ha dato ieri sera il pranzo ai critici; pranzo lugubre, tre quarti dei critici si sono scusati. C’erano i parenti, qualche amico intimo — tutti inquieti di esser con noi. Domani partiremo per Firenze senza la «Rivolta del Figlio» e senza sapere a che cosa dobbiamo queste nuove persecuzioni.


14 Marzo - Firenze.

Arriviamo a Firenze in mezzo a un nugolo di agenti, accolti da un altro nugolo di agenti che ci fanno scorta fino a casa. A casa molte lettere che ci parlano di «quell’articolo che ci darà molte noie». Ma quale articolo? 

 

15 Marzo.

Finalmente un amico ha l’idea di mandarci il capo d’accusa: un articolo terribile del Popolo d’Italia contro papà. Da questo articolo pare che il «manager » americano, deluso dal rinvio indeterminato delle conferenze di papà, abbia dato un’intervista a un giornaletto di Chicago, nella quale avrebbe dichiarato che Guglielmo Ferrero non poteva venire in America a dare le conferenze promesse perchè gli avevano negato il passaporto, dal che si poteva concludere come Ferrerò diceva nelle sue lettere «che era tenuto come prigioniero in Italia». «Una bugia come questa — diceva il giornale — meritava per lo meno la prigione perpetua!».


17 Marzo.

Ieri una lettera del Prefetto invita papà a andare in Prefettura. Vi trova anche il Questore. I due funzionari sono accoglienti e  solenni, hanno il Popolo d’Italia nelle mani. Il Questore legge ad alta voce l’articolo in questione e comunica al papà con aria grave «la diffida» (il primo grado delle punizioni speciali prima del confino). «Per la diffida, il diffidato non può più occuparsi di politica nè avere contatto con fuorusciti o con gente sospetta, non può parlare in luoghi pubblici, ecc.».

Dopo la diffida il Prefetto legge a papà una lettera terribile del capo del Governo la quale finisce dicendo che «là Rivoluzione francese trattava i suoi nemici in ben altra maniera e per misfatti assai meno gravi, faceva tagliare la testa ai suoi nemici». Il Prefetto notifica che ordini erano venuti da Roma di rimettere immediatamente a Ferrero la sorveglianza, non più per precauzione, ma per punizione. Dopo questo discorso il Questore se ne va, il Prefetto prende un tono confidenziale, dice a papà che «diffida» e «sorveglianza» sono solo «una  minaccia», che in realtà il capo del Governo vuole semplicemente una smentita. Come amico e ammiratore scongiura papà di fare questa smentita subito, mentre è in Prefettura; si tratta di puntigli del Capo, la smentita ha da essere cosa assolutamente privata. La sorveglianza annoia assai lui, Prefetto. Gli lasci due righe di smentita ed egli la farà togliere immediatamente.

«Ma per dare una smentita io devo avere almeno il testo dell’intervista che devo smentire, qui non c’è che un telegramma di un giornalista a un giornale. Un telegramma di terza mano non è un testo di legge. Come posso smentire una intervista di cui non ho il testo?». 

 

 

Crediamo, ora,  si afferri bene il senso del “privilegiato”… Guglielmo Ferrero, come Croce, era conosciuto internazionalmente. Quindi, non lo si poteva sbattere in prigione.  Però, da “privilegiato” (per così dire),  insieme alla sua famiglia,  lo si sottoponeva  a ogni tipo di vessazione. 

L’aspetto più sgradevole della storia, come dicevamo,    rinvia all’apparato poliziesco: dagli alti funzionari ai semplici agenti, pronti a scusarsi, senza però cedere, evocando gli  ordini superiori.   Tremanti ma obbedienti al potere. E qui  rinviamo il lettore alle pagine di Ferrero padre sul rapporto circolare, praticamente, inevitabile,  tra dittatura e paura...

A dire il vero questo nascondersi dietro gli ordini è tipico di ogni istituzione  burocratica.  Tuttavia, quanto più l’istituzione permea di sé la società, inglobandola, tanto più diviene difficile  l’esercizio della libertà individuale.   

E che cosa fu il fascismo, se non una specie di enorme coltre, di burocrati in camicia nera,  che come il drappo di una bara  ricoprì l’Italia?

 

Carlo Gambescia   

 

 

(*) Qui:   https://it.wikisource.org/wiki/Diario_di_un_privilegiato_sotto_il_fascismo     

 

 

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