lunedì 11 luglio 2022

“Essere in carne” oggi, un problema

 


Leggo che il professor Burioni ha fatto body-shaming su Twitter nei riguardi di una ragazza in carne, come si diceva un tempo.

Il body-shaming ( trad. lett. “corpo-vergogna”) rinvia alla derisione verso l’aspetto fisico di una persona, costretta perciò a vergognarsi del proprio corpo.

Ricordo che una trentina d’anni fa, un avvocato, massiccio, per dirla tutta obeso, venne deriso da due forse tre condomini, che in pratica si erano messi a ridere, mentre il corpulento legale tentava di entrare nell’ ascensore. L’avvocato li querelò e il giudice gli diede ragione.

All’epoca, la derisione, a meno che non si trattasse di pubblico ufficiale, giuridicamente parlando, era perseguita, se avvenuta in pubblico, quindi diffamazione, però su querela: insomma, la libertà di querelare o meno era lasciata al privato, al singolo individuo.

Oggi, lo stalking è stato trasformato in reato perseguibile d’ufficio ( se commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità, oppure nel caso in cui vi sia stato l’ammonimento da parte del questore – articolo 612 bis). Gli esperti sostengono che persino il body-shaming potrebbe rientrare, se reiterato, quale comportamento derisorio, nell’alveo di un reato di stalking, quindi perseguibile d’ufficio.

Che cosa significa, tutto questo, dal punto di vista sociologico? Che la mentalità è cambiata. Però soprattutto a livello di élite illuminate. Per contro, semplificando, le masse, meno illuminate, sembrano attardarsi. Di qui, per così dire, l’aiutino legislativo e giudiziario. Diciamo di scuola giacobina: che riteneva che l’individuo dovesse essere educato alla libertà. A ogni costo: ricorrendo a catene e ghigliottina. Perché era per il suo bene.

Pertanto, se un tempo dare del ciccione a qualcuno poteva produrre una querela, oggi un magistrato, se informato dei fatti, potrebbe, anzi dovrebbe, in caso di reiterazione del comportamento lesivo, eccetera, eccetera, perseguire il reato di stalking d’ufficio.

Tutto questo, può essere definito come un segno di crescente civiltà? Dipende da cosa s’intende per civiltà. Se la civiltà significa ingentilimento dei costumi attraverso – attenzione – uno spontaneo processo sociale di trasformazione della mentalità, frutto di consapevoli scelte individuali, allora non c’è dubbio che si può parlare di civiltà delle buone maniere.

Se per contro l’ingentilimento è frutto, non di scelte consapevoli, ma della paura di essere condannati o incatenati allora, le cosiddette buone maniere, non sono un fatto di civiltà, ma più semplicemente un riflesso conformista dettato da un timore-tremore interiorizzato.

Ciò significa che sotto la superficie del conformismo, apparentemente priva di increspature, continuano comunque a muoversi le correnti profonde della cattive maniere o addirittura delle maniere forti, pronte alla prima occasione a erompere in superficie con la forza del getto bollente di un geyser.

Il che però non vuol dire che si debba fare l’elogio delle cattive maniere, perché da che mondo è mondo, eccetera, eccetera.

Più semplicemente, qui si sostiene, che andrebbe lasciata ai singoli la libertà di decidere ciò che può essere offensivo o meno sul piano individuale, permettendo, se chiamato in causa dalla parte offesa, al giudice di decidere. Come ai tempi del povero avvocato obeso…

Si dirà, che con i social la situazione è cambiata, le offese si sono fatte pesanti, eccetera, eccetera. Sia pure.

Però in questo modo – ecco il rovescio della medaglia – si rischia di appesantire, una volta di più, il ruolo dello stato, che già legifera troppo, e di trasformare il magistrato in censore morale, a guardia di una evoluzione del costume, non più spontanea, frutto della libera interazione tra individui, ma guidata dall’alto in nome di una morale superiore.

Del resto, va segnalato un fatto curioso. Si stigmatizzano, addirittura prendendo spunto dalla Costituzione (in particolare l’ambiguo articolo 32), nel nome di un non del tutto ben definito diritto-dovere alla salute, i comportamenti alimentari, diciamo eccessivi. Perché l’obeso – ecco il mantra welfarista – in quanto a rischio sotto il profilo della salute, quindi del suo benessere, costerebbe due o tre volte di più sotto il profilo dell’assistenza medica pubblica rispetto alle persone con una linea perfetta.

Perché, si ripete, i magri devono pagare i grassi? Questa la nuova lotta di classe all’interno del welfare che invece, come sosteneva il britannico Beveridge (il nonno ideologico del Ministro Speranza) avrebbe dovuto eliminarla. Per la serie, effetti perversi della azioni sociali pubbliche a fin di bene..

Dicevo curioso: per un verso non si può dare del ciccione a nessuno, altrimenti arrivano i carabinieri, per l’altro, però lo si colpevolizza dal punto di vista del welfare, minacciando giri di vite fiscali dal punto di vista del peso forma ideale, diciamo stabilito per legge.

Insomma, quello che non è permesso al privato maleducato, come nel caso della battuta sul peso, è ammesso nei riguardi dello stato che offende gli individui, seppure indirettamente, stabilendo criteri pubblici di benessere, non condivisi da tutti: qui l’offesa, se si vuole la "diminuzione"  sociale,  per chiunque non rientri nelle misure standard. Sulle quali, si badi, come per i  famigerati parametri virologi, non c'è accordo. Quindi per un chilo di troppo, perché poi la burocrazia ha necessità di statistiche, si rischia di finire all'indice del peso proibito.

Certo, per ora, medici e funzionari pubblici si limitano a scuotere la testa e prescrivere diete. Ma, prima poi, si potrebbe giungere alla tassazione di chiunque sia, per sua libera scelta, fuori forma. O addirittura all’esclusione parziale o totale, dei fuori peso, da alcune prestazione sanitarie.

Esageriamo? Decida il lettore.

Carlo Gambescia

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