giovedì 21 luglio 2022

Draghi e il parlamento esautorato

 


Draghi è caduto. O almeno così pare. L’editoriale di Marcello Sorgi sulla “Stampa” si intitola, tristemente, “I partiti giocano il paese affonda”.

Diciamo subito che durante la Prima guerra mondiale, l’Italia cambiò tre governi. Nel corso della Seconda ci fu prima un colpo di stato, poi tra il 1946 e il 1948, all’epoca della Costituente, si ebbero tre governi. E la guerra russa in Ucraina era ancora di là da venire..

Cosa vogliamo dire? Che i parlamenti funzionano solo se i parlamentari rinunciano a essere una specie di terminale di decisioni prese altrove.

Un passo indietro: parlamentarismo, nella sua accezione migliore, significa centralità del parlamento. Istituzione che deve riflettere maggioranze e minoranze che si alternano, o da sole o in coalizioni, sulla base di libere votazioni. Di conseguenza gli esecutivi devono dipendere dal voto parlamentare, come del resto recitano non poche costituzioni liberali. Dal voto – si faccia attenzione – del singolo parlamentare come rappresentate non di un partito, di una parte o fazione, ma dell’intera nazione.

Sotto questo profilo in Italia, il parlamento non è più centrale da un pezzo. Esautorato dagli altri poteri. Il giudiziario, ad esempio provocò la caduta della Prima Repubblica.

D’altra parte, la diarchia informale tra Palazzo Chigi e  Quirinale – talvolta conflittuale, talaltra cooperativa – ha distinto la Seconda Repubblica ( per alcuni anche la "Terza", quella delle convergenze grilline prima a destra, poi a sinistra, infine al centro), come provano le lunghe presidenze Napolitano e Mattarella, quasi monarchie repubblicane con un “re-presidente” che regna e  vuole governare.

Inoltre, da anni – grosso modo, dagli anni Settanta – le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori, si sono trasformate da gruppi di  interesse in gruppi di pressione, esautorando i poteri del parlamento. Per non parlare del costante condizionamento esercitato dagli innumerevoli gruppi corporativi, nel senso di rappresentare interessi di parte, più o meno mascherati (dall’associazione vittime di questo o di quello, ai gruppi del fondamentalismo ecologista, ai consumatori e produttori di kiwi, eccetera, eccetera).

Infine i partiti, a prescindere dalle idee politiche professate, si sono tramutati in una specie di fabbrica della spesa sociale per accontentare un elettorato che a sua volta chiede sempre più una sola cosa: protezione sociale. Detto altrimenti welfare.

Il sistema si regge su una specie di malefico patto corporativo extraparlamentare  per dividersi la spesa pubblica.

Di conseguenza, in un contesto del genere, dove la politica non si decide più in parlamento ma altrove, le istituzioni rappresentative si sono trasformate nel terminale di ciò che accade all’esterno del parlamento.

Pertanto le cause della caduta di Draghi hanno almeno due ragioni.

In primo luogo, nel pasticcio iniziale di un governo di unità nazionale, che però, come triste prassi, non poteva non scorgere nei parlamentari gli organi esecutivi delle rispettive segreterie politiche, cosa che non poteva non provocare conflitti e scissioni.

In secondo luogo, nelle scarse capacità politiche del presidente Draghi, al quale si chiedeva uno sforzo di mediazione per resistere solo qualche altro mese per approvare misure ritenute importanti dal punto di vista della redistribuzione di risorse, secondo quel patto corporativo che però – attenzione – ha esautorato i poteri del parlamento.

Diciamo la verità, Draghi è stato scelto, non dal parlamento, che ha semplicemente ratificato decisioni prese altrove (Quirinale, segreterie dei partiti, gruppi corporativi), perché considerati i suoi importanti trascorsi europei, si pensava che Draghi, sfilando sulla passerella Italia, potesse fare bella figura. Un presidente del consiglio di rappresentanza, senza esagerare però: insomma prêt-à-porter…

Purtroppo, per dirla alla buona, le ciambelle non sempre riescono con il buco: Draghi ha mostrato per ragioni professionali e personali  di non essere all’altezza (*) ed è finito in una di quelle trappole tese dalle segreterie dei partiti.  Che dettano,  come noto,  ai parlamentari come votare. In questo senso, come osserva Sorgi, i partiti giocano, ma con malefica abilità.

Il punto è che i partiti si comportano come terminale di decisioni prese altrove, legate al conflitto redistributivo tra i vari gruppi di pressione e corporativi che si spartiscono la torta welfarista.

Ciò significa che il parlamento è il terminale di un altro terminale: si è tramutato in un simulacro, nell’immagine di una divinità politica, l’idea di governo parlamentare che però non esiste più: l’immagine di un’altra immagine. Un simulacro, per l’ appunto.

Per uscirne, ovviamente restando sempre all’interno della democrazia liberale, si dovrebbe azzerare il welfare, affidando la redistribuzione al mercato. E cosa non meno importante, andrebbero sganciati i parlamentari, una volta eletti, dalle segreterie dei partiti, lasciandoli liberi di  decidere secondo coscienza.

Il lettore sorriderà della nostra ingenuità liberale. Ma, per dirla francamente, se i parlamentari fossero stati liberi di votare secondo coscienza Draghi, pur con tutti i suoi limiti politici, non sarebbe caduto.

Carlo Gambescia

(*) Ne abbiamo parlato qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/governo-draghi-e-partito-della-spesa-pubblica-unanalisi-strutturale/ . E qui:https://cargambesciametapolitics.altervista.org/draghi-e-il-principio-del-minimo-sforzo/ .

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