mercoledì 30 marzo 2022

Sulla politica di potenza

 


Non sappiamo come andranno i negoziati in Turchia. Male, bene, così così.

Il punto non è questo. La vera questione, quella seria, è rappresentata dalla politica di potenza della Russia. Non si accontenterà mai. E ogni concessione sarà interpretata come un segno di debolezza e una conferma che l’Occidente teme non solo la Russia, ma la guerra in quanto tale. Che invece, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è una prosecuzione della politica con altri mezzi.

Perché, sia chiaro, accettare la neutralità ucraina, il non ingresso nella Nato, come la politica dei fatti (militarmente) compiuti, a cominciare dalla Crimea, nei territori contestati dalla Russia, non rappresenta un buon compromesso ma un cedimento totale.

La sottomissione dell’Ucraina sarebbe un cattivo esempio per il futuro. Ammesso e non concesso che i russi accettino che l’Ucraina neutralizzata entri nell’Unione Europea, in realtà – attenzione – dalla porta di servizio di uno smembramento territoriale.

Si dirà che il compromesso va accettato purché i russi si ritirino dal resto dell’ Ucraina e finisca la guerra.

Il che potrebbe essere condiviso, ma a quali condizioni? Di rafforzare il nemico e umiliare l' alleato?

Certo, come del resto abbiamo scritto, le trattative sono importanti per evitare l’insorgere di “complicazioni atomiche”, provocate dal procrastinarsi del conflitto sul campo. Sì, però non al ribasso.

Purtroppo è l’intera strategia dell’Occidente che è sbagliata. E qui il discorso, si fa anche teorico, metapolitico, e per questo più interessante

Innanzitutto, perché l’Occidente rifiuta l’idea stessa di nemico. Spera nella sua conversione psico-culturale. Tuttavia, l’aggressività è una cosa, e forse in parte si può anche ridurre, quando si tratta di singoli individui, diciamo attori individuali, un’altra è la guerra per ragioni di potenza, cioè come proseguimento della politica con altri mezzi da parte di un attore collettivo.

Non si tratta perciò di aggressività, qualcosa che si può temperare con le pasticche e il condizionamento culturale, ma di vero e proprio riflesso d potenza: di qualcosa che scatta naturalmente nell’attore istituzionale: si fa così perché voglio così. Quindi si tratta di una questione di antropologia sociale, di costituzione delle società umane. Una questione che va oltre Putin.

Per capirsi, il ragionamento in termini di politica di potenza è molto semplice: se non ti posso piegare con le buone, ti piego con le cattive. E comunque ti devo piegare, perché la tua sottomissione ha natura esemplare. Così i possibili nemici imparano subito chi comanda qui.

Perché dover piegare qualcuno? Non si vive meglio tutti in pace?

Ottime domande. Che però non tengono conto di un fatto: che la politica in ultima istanza è potere nudo, costrizione pura e semplice. Come spesso ci piace ripetere: grado zero della socialità.

Ovviamente, quanto più le tradizioni culturali, come nel caso della Russia, rinviano a romantiche tradizioni di grandezza, onore e gloria, tanto più la politica di potenza si fa necessaria, diremmo inevitabile. Quindi, ripetiamo, il problema non è Putin (o almeno lo è fino a un certo punto). Esiste una dinamica politica oggettiva per cui l’unica risposta possibile è quella di opporsi a coloro che ci indicano come nemici con una potenza superiore.

Perché fin quando si è inferiori, come nel caso dell’Ucraina, si rischia sempre di essere schiacciati. Come sta accadendo.

Per contro, l’Occidente, rifiuta la guerra, rifiuta il nemico, rifiuta persino il minimo sindacale del riarmo. Si augura che le cose si aggiustino da sole, così come per incanto. Oppure, come dicevamo, che il nemico si converta, psico-culturalmente, ai nostri valori.

La tragedia del pacifismo è che scambia (oppure prolunga l’una nell’altra) l’aggressività individuale con la politica di potenza collettiva, che è la politica in quanto tale, perché fondata sulla insopprimibile dicotomia amico-nemico. Che si può sublimare, sul piano interno come nei sistemi liberali, ma non eliminare sul piano esterno, della politica internazionale, interamente dominata dalla politica di potenza. Ripetiamo, da una socialità al grado zero.

Ovviamente un liberale, fortemente e giustamente individualista, che crede nella parola, nella persuasione, eccetera, sente come costrittivo il quadro della politica internazionale appena definito.

Allora – ci si potrebbe chiedere – che fine fa la mano invisibile delle microdecisioni? Purtroppo, gli attori istituzionali, come gli stati, per non parlare degli imperi, una volta “istituiti”, spesso inconsapevolmente dal punto di vista delle scelte individuali, assumono una logica propria che è quella della potenza, che finisce per opporsi ai desiderata individuali.  Per evitare ciò si dovrebbe vivere in un mondo privo di attori istituzionali. Ma non esistono società prive di istituzioni. Di qui, il conflitto, eccetera, eccetera.

Certo, i trattati sono importanti. Quando è possibile limitare, per accordi e per un certo tempo, la politica di potenza è giusto farlo. Ma illudersi che possano bastare per impedire che le guerre, talvolta persino necessarie, spariscano come per incanto, è pura utopia, anche pericolosa, perché spiana la strada ai “prepotenti”.

Sappiamo bene, cosa penseranno non pochi lettori: che i nostri ragionamenti conducono alla guerra atomica e alla distruzione del genere umano. Diciamo, prima o poi. E che quel “poi” può richiedere anche secoli, come pure – è vero – un attimo.

Quindi i lettori, per così dire pacifisti, hanno perfettamente ragione.

Però ci sono cose che non si possono cambiare. Forse mitigare, per qualche tempo ma non per sempre. E una di queste è la politica di potenza. Con tutte le tragiche conseguenze del caso.

Prendiamone atto, e forse allungheremo i tempi di quel “poi”. Forse.

Carlo Gambescia

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