giovedì 6 novembre 2025

Vince Mamdani. I dilemmi liberali. Come liberarsi del populismo di destra senza cadere in quello di sinistra

 


La vittoria di Zohran Mamdani a New York segna una svolta che divide e confonde (*).

Da una parte, entusiasmo travolgente: il giovane socialista – del resto tale si proclama – che sconfigge l’establishment democratico e si impone come simbolo del “nuovo inizio progressista”. Dall’altra, panico morale: la destra che lo dipinge come un piccolo Lenin, un populista radicale, una specie di comunista 2.0 che porterà la città nel caos — e probabilmente l’America, qualora trovasse altri sostenitori a livello nazionale.

Qui uno scambio non proprio all’acqua di rose tra Mamdani e Trump:

“Donald Trump, so che mi stai guardando: ti dico solo quattro parole — tieniti forte!”
(Donald Trump, since I know you’re watching, I have four words for you: Turn the volume up!)
— Zohran Mamdani, discorso di vittoria, New York, 5 novembre 2025

“È un pazzo comunista al cento per cento.”
(He is a 100% Communist lunatic.)
— Donald Trump, su ‘Truth Social’, 6 novembre 2025



Un liberale, preso nel mezzo, cosa deve pensare?

Diciamo pure che non desideriamo unirci alla festa. Ovviamente giudichiamo Trump un pericolo, come del resto i suoi candidati locali. Però vediamo nella figura di Mamdani l’opposto uguale e contrario di Trump: stesso uso della retorica “noi contro loro”, stesso disprezzo per la mediazione istituzionale, stessa idea che la politica sia una guerra di purezza morale. Solo con colori diversi.

Persino la sua nota posizione pro-palestinese – più ideologica che politica – rientra in questa logica binaria: non una proposta di pace, ma un nuovo campo di battaglia morale.

Certo, Trump va cacciato – elettoralmente parlando – ma non per finire nelle braccia dei cantori di un welfare distopico. È anche vero che altrove, negli Stati Uniti, hanno vinto candidati democratici moderati, e questo bilancia il quadro. Ma il problema resta.

In Europa — e in Italia in particolare — la vittoria di Mamdani è stata accolta con un piacere quasi infantile, come se il populismo di sinistra fosse moralmente superiore a quello di destra. E invece non lo è. Cambiano gli slogan, non la feroce volontà di distruggere la società liberal-democratica.

Essere liberali oggi significa non cedere al riflesso pavloviano di “scegliere il male minore” tra due candidati populisti. La destra populista difende uno stato forte, protezionista, sospettoso del mercato e chiuso verso il mondo. La sinistra radicale sogna uno stato ancora più grande, regolatore di ogni ingiustizia, distributore di felicità pubblica.

Il liberale, invece, crede che i problemi economici e sociali si risolvano con più mercato, non con meno. Più concorrenza, più libertà d’intraprendere, più fiducia nell’individuo — non come totem ideologico, ma come leva pratica di emancipazione. Un mercato aperto non è un idolo: però, come metapolitica, storia e sociologia dimostrano, è il miglior strumento conosciuto per ridurre disuguaglianze strutturali e offrire opportunità reali, non una pelosa assistenza temporanea.

La sinistra welfarista e la destra protezionista condividono la stessa paura del mercato, la stessa nostalgia per uno stato onnipresente che pianifica, corregge, distribuisce. Ma uno stato che fa tutto, alla lunga, toglie spazio a tutto — soprattutto alla libertà.

Un liberale non deve chiudere gli occhi sulle ragioni che hanno portato all’ascesa di Mamdani. Ma neppure credere a quelle addotte dalla sinistra: costi della vita insostenibili, giovani esclusi, élite autoreferenziali.

I costi della vita sono insostenibili non per colpa del mercato, bensì per la pressione fiscale inflazionistica (cioè quell’aumento continuo di tasse, sussidi e vincoli che gonfia i prezzi e deprime la produttività).

Non esistono “giovani esclusi” in senso vittimistico, ma giovani che si autoescludono, convinti — dopo anni di propaganda anti-mercato — che l’impegno individuale non paghi più, che la meritocrazia sia un mito borghese, che tutto debba essere redistribuito prima ancora di essere prodotto.

 


Quanto alle élite autoreferenziali, è un’altra favola populista, utile tanto alla destra quanto alla sinistra per riproporre il solito teatrino ideologico dei “ricchi contro i poveri”. La realtà è più banale: in ogni società complessa le élite ci sono e servono, purché siano aperte, meritocratiche e trasparenti. Il populismo — di destra o di sinistra — preferisce invece distruggere le élite reali per sostituirle con nuove caste di fedeli.

Per questo, il liberale autentico non si limita a denunciare i problemi, ma contesta la diagnosi sbagliata.

Il punto non è “più stato per correggere il mercato”, ma più mercato per correggere lo Stato. Il rimedio proposto da Mamdani, più stato, più controllo, più redistribuzione – si badi, parliamo non dei provvedimenti spiccioli ma della logica “interventista” che ne informa le scelte di fondo – rischia di aggravare proprio i mali che denuncia. Soprattutto quando si accompagna a un linguaggio semplificatorio e identitario, che sostituisce la complessità con la contrapposizione morale: “noi, i giusti” contro “loro, i corrotti”.

 


Il liberalismo autentico è l’esatto contrario: è la politica del dubbio, della gradualità, della responsabilità. Chi cerca il salvatore rischia di costruirsi un nuovo padrone.

In Europa, e in Italia in particolare, la fascinazione per Mamdani dice molto di noi. La sinistra vede in lui il riscatto morale dopo anni di pragmatismo grigio; la destra lo brandisce come spauracchio utile per serrare i ranghi. E così si propongono soluzioni che, invece di liberare energia sociale, la traducono in nuove forme di dipendenza dallo stato.

Il liberalismo non è un museo di vecchie certezze, ma una disciplina del limite: limite del potere, dell’emozione politica, dell’illusione che basti “credere” per cambiare la realtà. Oggi serve come bussola, non come nostalgia. Perché il rischio del nostro tempo non è solo il ritorno del fascismo o del socialismo, ma la scomparsa del senso della misura.

La vittoria di Mamdani non è la fine del mondo — ma è un segnale. Ci ricorda che se i liberali non parlano più di libertà economica, lo faranno i populisti, a modo loro. E se rinunciano a difendere il mercato come spazio di autonomia e non come idolo, lasciano campo a chi sogna di sostituirlo con un paternalismo compassionevole e inefficace.

Il liberalismo non deve chiedere scusa per credere nella libertà. Anzi, deve tornare a dirlo con orgoglio: più mercato, meno Stato.

E soprattutto, meno illusioni. Perché il rischio, con i nuovi profeti del bene, è che ogni causa — perfino quella palestinese — diventi solo un’altra bandiera per distinguersi, non per capire.

 


Carlo Gambescia

(*) Qui, dalla pagina  YouTube di Tony Quattrone,  per un quadro sintetico delle elezioni: https://www.youtube.com/watch?v=Y6UEoflzxXE .

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