giovedì 13 novembre 2025

Ucraina. Le carogne del moralismo al servizio di Putin

 


Ammesso e non concesso che la notizia sia vera, chiediamoci: che cosa si sarebbe pensato se, durante la Seconda guerra mondiale, si fosse detto che uomini del generale De Gaulle lucravano — semplifichiamo — sugli armamenti destinati all’esercito francese in ricostruzione? Si sarebbe fatto un piacere a Hitler.

Ecco, oggi, con le notizie di presunte tangenti in Ucraina, si fa un piacere a Putin: nemico dichiarato della liberal-democrazia e vertice di uno dei regimi più corrotti del mondo.


 


La democrazia occidentale, fin dalle sue origini, ha dovuto fare i conti con la corruzione. Il Parlamento britannico del Settecento, la Terza Repubblica francese, l’Italia liberale: ovunque il potere pubblico gestisse risorse comuni, l’interesse privato trovava la via per insinuarsi. Dove il denaro non è “di famiglia”, dove dorme da generazioni nelle stesse mani, i più avidi tra gli “uomini nuovi” si mettono a scavare altrove.

Il fenomeno non è l’eccezione: è il rischio interno di ogni società aperta. Dove esiste libertà, esiste anche la tentazione di abusarne. Ma è proprio la possibilità di indagare, denunciare e punire la corruzione che distingue una democrazia da una dittatura.



I nemici della liberal-democrazia, invece, usano la corruzione come arma politica per abbatterla. La denunciano non per purificarla, ma per screditarla. Così, nel nome di una moralità superiore, aprono la strada a regimi ancora più corrotti, perché privi di qualunque forma di controllo legale. Il fascismo ne è un esempio perfetto: un sistema che si proclamava etico e nazionale, e che fu in realtà un intreccio di clientele, tangenti e saccheggi legalizzati.

 


Tirare in ballo la corruzione in un momento come questo — vero o falso che sia l’episodio specifico — significa fare un regalo ai nemici dell’Occidente e dell’Ucraina liberal-democratica. L’Ucraina non è uno Stato fantoccio: ha storia e tradizioni unitarie. Inoltre da quattro anni resiste, con risorse sempre più limitate, all’aggressione russa. Gli ucraini credono nella libertà e nell’Europa. E la difendono per noi.

Che ci sia corruzione? È probabile. In un’economia di guerra è quasi inevitabile — citofonare  Göring — e lo è anche in una democrazia in tempo di pace —  citofonare Stavisky. Ma confondere l’inevitabile rischio con una prova di fallimento politico significa non capire come funziona la libertà quando è messa alle corde.





Eppure, ecco che arrivano — puntuali come le mosche sulla ferita — le carogne del moralismo. Quelle che oggi, nei giornali e nei talk show, armati del solito Corruption Perception Index, brandiscono lo scandalo ucraino come prova che “non siamo migliori”, che “l’Occidente è marcio”, che “Zelensky non è diverso dagli altri”. È il solito moralismo travestito da disincanto: in realtà, una forma di complicità oggettiva con il cinismo autoritario.                                      

Perché in nome di una purezza impossibile si finisce per giustificare chi quella purezza non la riconosce nemmeno come valore. Se fosse stato un dittatore da repubblica delle banane, Zelensky sarebbe già scappato con la cassa. Invece è ancora lì, sotto le bombe, a tenere in piedi uno Stato che continua orgogliosamnete a dirsi libero.



Naturalmente la corruzione va indagata e punita, sempre. Ma non usata come clava politica in tempo di assedio. Non ora, non mentre Kiev combatte per la propria sopravvivenza sul campo di battaglia.

La liberal-democrazia, anche ferita, resta la sola forma di governo che ammette di essere imperfetta.

E proprio per questo — perché sa riconoscere le sue ombre — merita di essere difesa, ogni giorno, da chi crede nella libertà come bene comune, non come alibi morale.

A cominciare dalla causa ucraina.

Carlo Gambescia

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