domenica 23 novembre 2025

Stato, libertà e rischio: il caso della “famiglia nel bosco”

 


Il caso della famiglia anglo-australiana che viveva in un casolare isolato nei boschi d’Abruzzo ha riaperto un caso di scuola che credevamo consegnato ai manuali di filosofia del diritto, quella classica, imperniata sul conflitto diritto positivo–diritto naturale, non l’indigesto zuppone analitico-linguistico che si studia oggi nelle Facoltà di Legge.

La vera domanda è: fino a che punto lo stato può spingersi nel controllare le scelte private dei cittadini? E, soprattutto, può farlo prima che si verifichi un danno concreto, sulla base di una valutazione astratta dei rischi?

Prima di rispondere, evidenziamo il silenzio della sinistra, che sembra ormai essere in pianta stabile dalla parte dello stato. Ma va ricordato anche il chiasso della destra, che pare invece risvegliarsi solo per attaccare i giudici e difendere la “sacra famiglia”.

Ciò che vogliamo sottolineare è che la sinistra difende l’individualismo protetto da parte dello stato (per capirsi: “Puoi vivere in un bosco ma alle mie condizioni”), mentre la destra difende la famiglia, quindi la comunità più che l’individuo (per capirsi: “Non si separano i bambini da mamma e papà”).

E l’individuo? Le sue scelte? La sua libertà, che ovviamente implica responsabilità? Non esistono. Esiste un individualismo da proteggere, a colpi di regolamenti che poi vanno in tilt, privando l’individuo della sua libertà, atteggiamento tipico di una sinistra statalista. Oppure si rilancia quell’idea di famiglia, che rinvia, con dio e patria, alla triade di valori amatissimi dalla destra reazionaria.



Pertanto, come nel dibattito in corso, non si parla di difesa della libertà individuale. Non si celebra il diritto di vivere come più piace, evocato, peraltro giustamente, dalla sinistra a proposito della scelta di fine vita, scelta che però si vuole regolamentata dallo stato: qui l’inguaribile statalismo della sinistra. Si brinda, soprattutto a destra, al diritto della “sacra” famiglia a non essere smembrata, principio che però la stessa destra, che difende le “belle famiglie italiane”, non vuole estendere alle famiglie Rom e dei migranti.

Da una parte c’è chi difende l’intervento dello stato in nome della tutela dei minori: isolamento, condizioni precarie dell’abitazione, intossicazione da funghi, istruzione impartita fuori dai circuiti scolastici. Quindi diritto positivo, cioè quello racchiuso nei codici e nei regolamenti. Dall’altra, c’è chi vede nell’ordinanza l’ennesima manifestazione contro le famiglie di uno Stato Woke (ormai è una parolaccia) che pretende di stabilire non solo ciò che è legale, ma ciò che è “normale”.

E l’individuo e i suoi diritti? Ripetiamo: zero tituli.

È su questo secondo fronte che vale la pena soffermarsi.

Le democrazie liberali si fondano sull’idea che la libertà individuale sia un valore primario. E la libertà comporta inevitabilmente il rischio che un individuo faccia scelte discutibili, discutibili agli occhi di altri, discutibili agli occhi dello stato. Questo rischio non è un difetto del sistema: è il prezzo della libertà stessa.



Nel caso dell’Abruzzo, i genitori avevano scelto un progetto di vita radicale: vivere fuori se non contro la modernità, educare i figli in casa, ridurre al minimo il rapporto con la società circostante.

Una scelta legittima, si dice, purché non sfoci in un danno concreto ai minori. In realtà il punto è tutto qui: perché è verissimo che il diritto penale — e più in generale lo Stato di diritto — devono intervenire, ma l’intervento, per così dire, deve essere ex post, non ex ante. Dopo, non prima.

Si dirà: ma i bambini potevano morire, eccetera… Se i bambini fossero morti a causa dell’intossicazione da funghi, i genitori ne avrebbero risposto davanti alla legge.

Quel che diciamo può apparire orribile, però è ancora più orribile l’idea che lo stato possa sostituire di fatto la responsabilità individuale con un controllo preventivo totale — scavalcando la libertà del singolo che sceglie di vivere in un certo modo, sulla base di ciò che “potrebbe accadere” — aprendo una strada pericolosa.

Una strada in cui la vita privata finisce compressa non per atti illeciti, ma per divergenza dallo standard culturale maggioritario.

La tutela dei minori è un dovere costituzionale e nessuno lo mette in dubbio. Ma tutela non significa pre-tutela sulla base di una presunta idea di normalità o di un insieme di pratiche o consuetudini statalizzanti. Né significa imporre un modello di vita “corretto” per paura che alternative eccentriche possano generare rischi. Perché se la bussola diventa il rischio zero, la libertà si tramuta in eccezione.



La vulnerabilità dei bambini è il problema più serio e più delicato. Ma proprio per questo dovrebbe essere maneggiato con prudenza: il concetto, spesso evocato dai giudici e dagli assistenti sociali, di “pregiudizio attuale”, non può trasformarsi in un passepartout che giustifica ogni intervento statale preventivo, anche in assenza di un danno reale. Altrimenti la tutela si trasforma in ingerenza, e l’interesse del minore finisce interpretato secondo le categorie culturali del momento.

La questione di fondo non riguarda una singola famiglia. Riguarda tutti noi in quanto individui, liberi e responsabili. Quanto stato vogliamo nella nostra vita privata? E, soprattutto, chi decide quale forma di vita è “accettabile” e quale no?

Una società aperta non può limitarsi a tollerare la libertà entro i confini della consuetudine. Deve accettare anche ciò che esce dai binari, finché non calpesta i diritti altrui, quindi in chiave ex post.

Il caso dell’Abruzzo ci ricorda che la libertà individuale non è un orpello romantico, ma una conquista fragile. E che, senza di essa, la tutela diventa custodia, e la sicurezza diventa pretesto per restringere gli spazi dell’autonomia personale.



Il diritto positivo non è tutta la legge. Esistono principi di libertà, che rinviano al diritto naturale, dell’uomo in quanto essere libero. Diritto che può, anzi deve, entrare in contrasto con il diritto positivo.

Si dirà che è rischioso. Ma la libertà è rischio. Ecco perché per molti è un peso. Non si vuole assumere rischi. Non si vuole alcuna responsabilità. E allora si preferisce sprofondare nella dolciastra melassa dell’individualismo protetto.

Difendere la libertà - anche quando costa, anche quando non somiglia alla nostra idea di “normalità” -  resta l’unico antidoto contro una società che, in nome della protezione, rischia di soffocare ciò che dovrebbe proteggere: la libertà, la responsabilità e la dignità dell’individuo.

Carlo Gambescia

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