venerdì 7 novembre 2025

La manovra e la religione della redistribuzione welfarista

 


Non è compito di una manovra economica redistribuire la ricchezza.

Il suo scopo è liberare l’economia, rimettere in moto l’iniziativa privata, semplificare, ridurre i vincoli, tagliare sprechi e sussidi improduttivi. In una parola: favorire la libertà economica. Sarà poi il mercato – con tutti i suoi imperfetti ma vitali meccanismi – a redistribuire secondo merito, abilità e capacità.

E invece, anche quest’anno, ci tocca assistere all’ennesima rappresentazione moralistica: la “manovra per i ricchi”.





Inutile entrare nel merito di numeri e numeretti. Sceneggiate contabili. Un taglio qui, un sussidio lì. Nessuna vera svolta liberale. Che poi a usare l’etichetta sia proprio chi dovrebbe parlare con la freddezza dei numeri, cioè la Banca d’Italia, è un triste segno dei tempi. Ormai nemmeno

Bankitalia non si comporta più da banca centrale. Parla da economista “sociale”, ammonisce, giudica, predica equità.

È il segno di un’epoca – ripetiamo – in cui perfino le istituzioni tecniche si sono convertite alla religione della redistribuzione welfarista.

Il governo, dal canto suo, non è certo liberale. Non ne ha né la cultura né le radici. È un governo statalista travestito da destra sociale, convinto che difendere i ceti medi significhi amministrare sussidi e bonus. Ma i ceti medi si difendono in un solo modo: liberando l’economia.

 


Meno tasse, meno regolazioni, meno welfare. Altro che le chiacchiere di “Libero”, giornale pseudoliberale, più falso di tutti.

Ogni volta che lo Stato mette le mani in tasca al contribuente “per proteggerlo”, in realtà gli ruba la libertà di decidere per sé.

Quanto alle banche, tacciono. Nessuna protesta dell’ABI, nessuna reazione vera agli ennesimi balzelli. E pensare che basterebbe bloccare tutti gli sportelli, inclusi i digitali. Un tempo bastava una parola di protesta per far tremare un governo. Oggi, invece, il capitalismo di rendita vive in simbiosi con lo stato che dovrebbe temere. Le banche italiane non fanno più concorrenza: fanno burocrazia creditizia, obbedendo alle logiche del consenso politico.

Intanto, la sinistra, dopo l’ascesa di Mamdani a New York, sprofonda in una nuova versione populista del socialismo morale, anzi moralistico: predicare contro i ricchi, contro il mercato, contro la libertà economica. Un disastro annunciato.



In mezzo, resta il vuoto. Nessuno parla più il linguaggio liberale, quello che non chiede sussidi ma libertà. Quello che crede nel mercato come più grande produttore di ricchezza, capace di rifluire dall’alto verso il basso, come provano i progressi sociali ed economici degli ultimi due secoli.

Una macchina delle meraviglie. La migliore che l’uomo abbia mai inventato. Senza sapere, si badi, ciò che inventava.

Si potrebbe dire che il mercato capitalista — dopo 4800 anni di schiavitù — si è imposto da solo, come il migliore dei mondi possibili.

Certo, non durerà in eterno, come ogni altro fenomeno sociale. Però — ecco il punto — che a causarne la fine non siano un grumo di dementi, a destra come a sinistra, sempre pronti a gratificare, per un pugno di voti, gli istinti più bassi degli uomini e delle donne di un’epoca felice, che rischia così di tramutarsi nella più disgraziata della storia.

 


Perché il contraccolpo totalitario sarebbe durissimo. Come già nella prima metà del Novecento, quando si farneticò di “Terza Via”: ovviamente verso la miseria. E oggi in Italia – ironie della storia (ma fino a un certo punto) – sono al governo proprio coloro che di quella “Terza Via” sono gli eredi più inconsapevoli o i più coerenti, a seconda di come la si voglia vedere.

Finché la politica – di destra e di sinistra – continuerà a ragionare in termini di “ricchi contro poveri”, e non in termini di libertà contro vincolo, non ci sarà crescita, né giustizia. Altro che manovra “per tutti” come scrive il “Secolo d’Italia”, nell’ultima posticcia versione dell’apologo di Menenio Agrippa spiegato al popolo.

Fino a quel momento avremo solo una lunga, sterile amministrazione dell’angoscia e della paura. Non esistono società a rischio zero. Ergo, occorre darsi da fare. E il mercato capitalistico resta lo strumento migliore.

O, se proprio si preferisce, come per la democrazia – per parafrasare Churchill – il capitalismo è la peggior forma di sistema economico, a eccezione di tutte le altre che si sono sperimentate finora.

Carlo Gambescia

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