Riletture: Carlo Mongardini e Maria
Luisa Maniscalco ( a cura di), Il pensiero
conservatore. Interpretazioni, giustificazioni e critiche, Franco Angeli,
Milano 1999, pp. 192, Euro 26,50.
http://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?CodiceISBN=9788846417596 |
Cosa
c’è da conservare oggi? Secondo Carlo e
Mongardini e Maria Luisa Maniscalco, curatori
di un' interessante antologia, poco o punto. Leggiamo: «Il conservatorismo contemporaneo, ad esempio, appare ancora per
molti aspetti, come espressione di una
cultura borghese che, per bloccare il potenziale rivoluzionario di una società
complessa, tende con una ideologia debole a mantenere l’ordine esistente. Esso
vive con davanti agli occhi il fantasma della rivoluzione francese e dei
fenomeni rivoluzionari che hanno infranto, negli ultimi secoli, il tessuto
di questa cultura. Il principio
conservatore è divenuto così storicamente più flessibile e ha cercato di
adottare la stessa idea di politica ai mutamenti socio-culturali: dalla
politica come momento sacro dell’unità del gruppo alla politica come controllo
del cambiamento, alla politica come economia o governo della ragione
calcolante» (p. 23). Di
qui, «la cristallizzazione del presente» e «il tentativo di fermare la storia
sull’interpretazione della vita e sugli interessi oggi dominanti». Sicché, «
oggi non ci sono più conservatori
perché non c’è più nulla a cui si riconosca un valore da conservare.
Tutto ricade nel brodo primordiale della
socialità a cui si attribuisce valore costruttivo , ma che
finisce col legittimare il predominio
degli interessi dominanti». Conclusioni: « Al vecchio conservatore non rimane
paradossalmente che lottare per il
progresso, per uscire dal recinto del presente e ridare senso alla storia» (p. 24).
Carlo Mongardini |
Non
sapremmo come commentare… Siamo a dir poco perplessi. Perché, in verità, sentiamo odore ( o maleodore e ci
dispiace per i curatori, soprattutto per il professor Mongardini, a nostro
avviso, tra i più acuti sociologi
italiani) di conservatorismo
rivoluzionario. O quantomeno di una propedeutica cognitiva, probabilmente non
del tutto consapevole, indiretta (tipo acqua al mulino...), in stile
professori anti-Weimar. E, l’ultima volta, non andò proprio bene. La cosiddetta Rivoluzione Conservatrice, quella sì, fu brodo culturale, della peggiore reazione antiliberale e antidemocratica del
secolo scorso. Che favorì il grande macello
europeo. Quindi attenzione: mai dimenticare la lezione del caro vecchio Max
Weber: si può essere rivoluzionari oppure conservatori, ma non rivoluzionari e
conservatori insieme. A meno che non si sia conservatori-rivoluzionari nel senso di un Cavour, di un Churchill, di una Thatcher...
Al di là di questo rilievo, l’antologia è sociologicamente ben costruita intorno al
pensiero di autori del calibro di
Simmel, Mosca, Pareto, Michels, Ortega, Mannheim, Huntington, con cenni (non antologizzati però) all’opera di Aron e di Luhmann. Meno
comprensibile, l’inclusione di Charles Wright Mills, fustigatore a cottimo di una società statunitense uscita vincitrice, e giustamente orgogliosa, dalla Seconda Guerra
Mondiale. Avremmo aggiunto il Carl
Schmitt di Politiche Romantik, eccellente contraltare conservatore all’eccesso di schematismo post-rivoluzionario e socialistoide di Mannheim, nonché
pescato qualche cosina dal Talcott Parsons di Politics and Social Structure (in particolare dalle Parti II e IV).
Maria Luisa Maniscalco |
Alcuni
spunti. Simmel, per l’ approfondimento del conflitto
tra forma e contenuto, quale invito - di cui ogni conservatore dovrebbe far tesoro - a non confondere
la forma istituzionale, storicamente cangiante, o transeunte, dalle regolarità o costanti del politico ( o del "metapolitico") che invece ciclicamente si ripetono. Di qui, l’importanza di
élites politiche (Mosca, Pareto, Michels) degne del proprio ruolo
politico ma anche consapevoli, per dirla con Michels che « il primo segreto del
continuato potere è la continuata conquista». Insomma, mai dormire sugli
allori. Ne consegue, la necessaria
diffidenza, di ogni buon conservatore, sia nei riguardi del tradizionalismo, come cristallizzazione di un
mitico e disneyano passato che dalle agghiaccianti simmetrie giacobine di ispirazione rivoluzionaria (Ortega). Ma non nell’attribuire giusto
valore al presente - in termini di vero e proprio "stile" politico - quale ultima tappa del passato (Mannheim).
Notevole,
infine, il contributo di Huntington, dove si individuano in chiave analitica, sei aspetti fondamentali del pensiero conservatore, aspetti che lo studioso statunitense fa risalire al pensiero
di Burke ( e aggiungiamo Tocqueville, tra l'altro stranamente assente dai contributi antologici): 1) l’uomo, e di riflesso la
società, hanno matrice religiosa; 2) ogni società rappresenta il prodotto organico di una lenta crescita
storica; 3) l’uomo è un complicato impasto di istinto e ragione: di qui, l’importanza
di comportamenti dettati dall'esperienza e dalle consuetudini; 4) i
diritti degli uomini derivano dai doveri
sociali e comunitari; 5) alcuni processi come la differenziazione, la gerarchia, la leadership sono il portato inevitabile della natura sociale dell'uomo e in particolare di ogni società civile; 6) nessun cedimento, infine, sull'assioma circa la bontà presuntiva delle istituzioni già stabilite e ordinate,
rispetto a ogni progetto non ancora sperimentato.
Sulla
base di questi «pre-requisti istituzionali», "presentismo" o meno, il conservatorismo potrebbe
tuttora giocare un ruolo politico fondamentale. Potrebbe… Per quale ragione il
condizionale? Perché sono pochi quei
politici che pubblicamente ammetterebbero di riconoscersi nei sei punti sopra
indicati. Paura, di non essere popolari? Certamente. Diciamo che, oggigiorno, la scelta conservatrice richiede una buona dose di coraggio, soprattutto per opporsi ai mitemi imperanti di certo progressismo melenso ma volpino e dalla scomunica mediatica facile. E,
purtroppo chi il coraggio non ce l'ha, come
osservava Don Abbondio, classico esempio
di pseudo-conservatore pavido, mica se lo può dare.
Carlo Gambescia
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