L’assoluzione di Erri De Luca
Ci scrive Claudio Ughetto...
Confesso
di essermi trovato piuttosto confuso dopo aver letto il pezzo dell'amico Carlo
Gambescia (*) sull'assoluzione di Erri De Luca, accusato di aver invitato i
militanti NO TAV a sabotare la
Linea ad Alta Velocità che dovrebbe arrivare dalla Francia e
attraversare la troppo attraversata Valle di Susa. Un progetto di venti e passa
anni fa su un fantomatico Corridoio 5 che doveva partire da Lisbona e passare
per la Spagna
per servire un'economia industriale inevitabilmente mutato rispetto alle
analisi originarie. Un progetto, nei fatti, ormai sfilacciatosi al 60%.
Beninteso,
Carlo ritiene come me inevitabile l'assoluzione dello scrittore, poiché
entrambi crediamo nella libertà di opinione, che negli stati democratici è
garantita. Come lui, ritengo che le scelte barricadere e violente debbano
essere evitate. Pur rimanendo un NO TAV convinto, nei miei scritti non ho mai
nascosto una certa disillusione verso la piega che il movimento ha preso nella
seconda metà del decennio zero, sempre più espressione ideologica dei centri
sociali e sempre meno caratterizzato per trasversalità ed eterogeneità dei suoi
componenti.
Ciò
che non capisco sono alcune affermazioni che mi sembrano semplicistiche,
soprattutto se vengono da un raffinato sociologo come lui, che di solito riesce
a farmi riflettere su punti verso cui non pongo la dovuta attenzione. È chiaro
che non ci si può richiamare al sabotaggio in nome della terra e dell'acqua,
come afferma De Luca; né la lotta NO TAV si può avvicinare a quella di Mandela
contro l'Apartheid in Sudafrica, che peraltro vinse abbandonando la lotta
armata e scegliendo la disobbedienza civile, che ha richiamato l'attenzione del
mondo libero alla sua causa. Detto questo, non capisco come si possa sostenere
che il progetto del TAV sia stato vinto democraticamente, tramite una
maggioranza su una minoranza dissenziente che dovrebbe ricorrere al Parlamento
per far valere le sue ragioni. Di che maggioranza parliamo? Quella dell'Ulivo e
Forza Italia o quella seguente del PD con tutte le sue dissezioni? Quella del
“Ce lo chiede l'Europa”, quando è noto che l'Europa si è limitata a chiedere un
adeguamento delle strutture ferroviarie ad esigenze tecniche e di sicurezza? In
realtà persino le ragioni di chi sponsorizza il TAV si sono sempre più confuse
con l'andare degli anni, riducendosi a un vago slogan che suona pressapoco
così: Opera cruciale per il paese. Il problema è capire di quale paese
stiamo parlando.
È
scientificamente assodato che le ragioni di chi si oppone a questo baraccone
ferroviario sono ben argomentate. Molto più di quelle di Erri De Luca che
ricorre a metafore e richiami da poeta dei poveri. Sono sufficienti le
argomentazioni di Andrea De Benedetti e del compianto Luca Rastello, autori di Binario
morto per farsi due calcoli: l'opera
dovrebbe essere terminata intorno al 2030, quando mia figlia - ora cinquenne –
avrà vent'anni, e dovrebbe dare i suoi utili nel 2050, quando mia figlia avrà
quarant'anni. Considerando che nella nostra epoca non è possibile fare piani
economici che vanno al di là dei cinque anni, e che la tecnologia corre ben più
veloce del treno, il progetto TAV suona un po' come la fantascienza di Stanley
Kubrick, che negli anni sessanta preconizzava i viaggi su Giove per il 2001 e
invece abbiamo avuto Internet. Inoltre,
non si è ancora capito se questo treno debba portare passeggeri, merci o
entrambi. Negli States è conclamato che le merci su rotaia non possono superare
i settanta km orari, non tanto per questioni di sicurezza ma perché a velocità
più alte l'usura dei mezzi comporta costi troppo alti. Quindi è legittimo
chiedersi cosa ci stiano vendendo con la sigla TAV.
Ma
questo cosa c'entra con la democrazia? C'entra soprattutto con la
comunicazione: non basta dire che la maggioranza parlamentare vuole il TAV. Se
una parte dei cittadini non lo vuole, e non ha nessuno che la rappresenta,
bisognerà ben che essa si attrezzi, con mezzi non violenti, per far sentire la
propria opinione. Non si sabotano i cantieri, ma essere presenti, esattamente
come in qualsiasi manifestazione o sit-in di protesta, è legittimo. E se
arrivano i poliziotti per spostare i protestatari, è altrettanto legittimo non
muoversi e anche farsi portare in galera. Sempre in modo non violento. Anche
questa è democrazia.
E
poi c'è tutta l'operazione informativa, direi metapolitica, che deve fare il
suo corso. Per sapere di cosa si è parlato e si continua a parlare durante
questi vent'anni, perché la sigla TAV non sia un nome favoleggiato dalle Figlie
della Memoria, di cui si racconta con toni differenti (enfatico-retorici da
parte di Erri De Luca, vaghi ed altrettanto enfatico-progressisti da parte dei
promotori) senza più sapere cos'è l'oggetto narrato. Fino a trasformarlo in un
oscuro oggetto su cui si costruiscono processi assurdi per rispondere a
dichiarazioni da ribelli del terzo mondo. Sarà che l'Italia è un già un po'
terzo mondo? Per il momento abbiamo ancora la libertà di opinione. Concordo con
Carlo che non è poco.
Claudio Ughetto
(*) http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2015/10/assolto-erri-de-luca-la-fortuna-di.html
***
Intanto,
ringrazio Claudio per il bel pezzo,
brillante e ben argomentato.
Sì,
è vero, la mia risposta è in qualche misura troppo semplice, forse
semplicistica. Ma, come dire, se si scinde, come si deve, la discussione dalla
decisione, come in tutti i processi democratici, una volta discusso, fino in
fondo, si deve decidere. Ed è purtroppo ovvio - nessuno è perfetto (presupposto
solo in apparenza banale) - che la decisione presa, talvolta, non sia quella giusta. Di qui, ripeto, la possibilità, di correggere
il tiro, convincere gli elettori delle proprie buone ragioni, sedere, da
vincenti, in Parlamento, e “ri-decidere”
di nuovo tutto. E così via, molto semplicemente. O se vuoi, Claudio, "semplicisticamente"...
Certo,
si tratta di un processo formale, con i
suoi buchi neri, legati alla sostanza sociologica delle cose: rapporti di
forza, valenza comunicativa, qualità delle classe dirigenti, interazione tra oligopoli economici ( ma anche pubblici
e politici), condizionalità varie (come
ad esempio il rapporto tra tempi dell’innovazione
tecnologia e tempi dell’ innovazione politica). Però è proprio questo e solo questo (il processo
formale) - lo si chiami pure un "espediente", evitando sempre possibili e pericolose deificazioni - che faticosamente siamo riusciti a costruire, riuscendo a sostituire, almeno nella politica interna, i
ballots ai bullets. E non è poco.
Naturalmente,
si tratta di un equilibrio precario, che si regge sul buonsenso di capire, semplificando, che, politicamente (e
proceduralmente), se oggi tocca a me, domani potrebbe toccare a te… E che
quindi dovremmo darci tutti (maggioranza e minoranza) una “regolata”… Ciò
significa che la prospettiva ballots, va
difesa a prescindere dai contenuti (che possono piacere o meno). Un tempo i retori parlavano dell’ Idem sentire de re publica (nel nostro caso, oggi, si
potrebbe parlare, meno enfaticamente, di
Idem
sentire de metodo o procedure democratico-repubblicane). Sicché,
ogni volta ( ovviamente non mi riferisco
alle forme non violente di disobbedienza
civile), che la civile protesta rischia di trasformarsi in protesta violenta, si esprime (piaccia o meno) una preferenza di massima per i
ballots. Tradotto: ci si colloca fuori del processo descritto sia dal punto di vista
storico (dai ballots ai bullets) sia formale (ballots invece di bullets).
Si
dirà, la storia non può essere costretta
dentro le maglie di un processo formale. Giusto. Però lo si dica
chiaramente, senza invocare, questo o quel nume umanitario, dal momento che
allora lo scontro non è più tra un certo gruppo sociale e una parte dell’
establishment politico, o se si vuole tra una maggioranza e una minoranza che condividono le stesse regole, ma - ecco il punto - tra un potere costituente e un potere
costituito. E, soprattutto, si accettino allora tutti i pro e i contro di un conflitto polemico, che con la democrazia (come
processo - faticosissimo - di neutralizzazione del polemos attraverso la dialettica interna alle istituzioni ), proprio perché basato sullo stato di eccezione, non ha nulla a che vedere. Tradotto: ci si avvia lungo una strada scivolosa e pericolosa per tutti, che, in termini di escalation sociologica, può condurre alla guerra civile...
Sotto questo profilo erano più “politicamente
onesti”, pur nella loro ferocia, i
terroristi degli anni Settanta dell'ineffabile Erri
De Luca che, nonostante i trascorsi e la cultura, parla ipocritamente ( rilanciando a vanvera) di democrazia offesa, pur essendo al corrente dell'importanza delle procedure e della necessità, affinché la nostra democrazia possa sopravvivere, di rispettare le regole.
Grazie
ancora Claudio e un grande abbraccio.
Carlo Gambescia
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