giovedì 22 ottobre 2015

L’assoluzione di Erri De Luca
                               Ci scrive Claudio Ughetto...




Confesso di essermi trovato piuttosto confuso dopo aver letto il pezzo dell'amico Carlo Gambescia (*) sull'assoluzione di Erri De Luca, accusato di aver invitato i militanti NO TAV a sabotare la Linea ad Alta Velocità che dovrebbe arrivare dalla Francia e attraversare la troppo attraversata Valle di Susa. Un progetto di venti e passa anni fa su un fantomatico Corridoio 5 che doveva partire da Lisbona e passare per la Spagna per servire un'economia industriale inevitabilmente mutato rispetto alle analisi originarie. Un progetto, nei fatti, ormai sfilacciatosi al 60%.
Beninteso, Carlo ritiene come me inevitabile l'assoluzione dello scrittore, poiché entrambi crediamo nella libertà di opinione, che negli stati democratici è garantita. Come lui, ritengo che le scelte barricadere e violente debbano essere evitate. Pur rimanendo un NO TAV convinto, nei miei scritti non ho mai nascosto una certa disillusione verso la piega che il movimento ha preso nella seconda metà del decennio zero, sempre più espressione ideologica dei centri sociali e sempre meno caratterizzato per trasversalità ed eterogeneità dei suoi componenti.
Ciò che non capisco sono alcune affermazioni che mi sembrano semplicistiche, soprattutto se vengono da un raffinato sociologo come lui, che di solito riesce a farmi riflettere su punti verso cui non pongo la dovuta attenzione. È chiaro che non ci si può richiamare al sabotaggio in nome della terra e dell'acqua, come afferma De Luca; né la lotta NO TAV si può avvicinare a quella di Mandela contro l'Apartheid in Sudafrica, che peraltro vinse abbandonando la lotta armata e scegliendo la disobbedienza civile, che ha richiamato l'attenzione del mondo libero alla sua causa. Detto questo, non capisco come si possa sostenere che il progetto del TAV sia stato vinto democraticamente, tramite una maggioranza su una minoranza dissenziente che dovrebbe ricorrere al Parlamento per far valere le sue ragioni. Di che maggioranza parliamo? Quella dell'Ulivo e Forza Italia o quella seguente del PD con tutte le sue dissezioni? Quella del “Ce lo chiede l'Europa”, quando è noto che l'Europa si è limitata a chiedere un adeguamento delle strutture ferroviarie ad esigenze tecniche e di sicurezza? In realtà persino le ragioni di chi sponsorizza il TAV si sono sempre più confuse con l'andare degli anni, riducendosi a un vago slogan che suona pressapoco così: Opera cruciale per il paese. Il problema è capire di quale paese stiamo parlando.
È scientificamente assodato che le ragioni di chi si oppone a questo baraccone ferroviario sono ben argomentate. Molto più di quelle di Erri De Luca che ricorre a metafore e richiami da poeta dei poveri. Sono sufficienti le argomentazioni di Andrea De Benedetti e del compianto Luca Rastello, autori di Binario morto  per farsi due calcoli: l'opera dovrebbe essere terminata intorno al 2030, quando mia figlia - ora cinquenne – avrà vent'anni, e dovrebbe dare i suoi utili nel 2050, quando mia figlia avrà quarant'anni. Considerando che nella nostra epoca non è possibile fare piani economici che vanno al di là dei cinque anni, e che la tecnologia corre ben più veloce del treno, il progetto TAV suona un po' come la fantascienza di Stanley Kubrick, che negli anni sessanta preconizzava i viaggi su Giove per il 2001 e invece abbiamo avuto Internet.  Inoltre, non si è ancora capito se questo treno debba portare passeggeri, merci o entrambi. Negli States è conclamato che le merci su rotaia non possono superare i settanta km orari, non tanto per questioni di sicurezza ma perché a velocità più alte l'usura dei mezzi comporta costi troppo alti. Quindi è legittimo chiedersi cosa ci stiano vendendo con la sigla TAV.
Ma questo cosa c'entra con la democrazia? C'entra soprattutto con la comunicazione: non basta dire che la maggioranza parlamentare vuole il TAV. Se una parte dei cittadini non lo vuole, e non ha nessuno che la rappresenta, bisognerà ben che essa si attrezzi, con mezzi non violenti, per far sentire la propria opinione. Non si sabotano i cantieri, ma essere presenti, esattamente come in qualsiasi manifestazione o sit-in di protesta, è legittimo. E se arrivano i poliziotti per spostare i protestatari, è altrettanto legittimo non muoversi e anche farsi portare in galera. Sempre in modo non violento. Anche questa è democrazia.
E poi c'è tutta l'operazione informativa, direi metapolitica, che deve fare il suo corso. Per sapere di cosa si è parlato e si continua a parlare durante questi vent'anni, perché la sigla TAV non sia un nome favoleggiato dalle Figlie della Memoria, di cui si racconta con toni differenti (enfatico-retorici da parte di Erri De Luca, vaghi ed altrettanto enfatico-progressisti da parte dei promotori) senza più sapere cos'è l'oggetto narrato. Fino a trasformarlo in un oscuro oggetto su cui si costruiscono processi assurdi per rispondere a dichiarazioni da ribelli del terzo mondo. Sarà che l'Italia è un già un po' terzo mondo? Per il momento abbiamo ancora la libertà di opinione. Concordo con Carlo che non è poco.

Claudio Ughetto

(*) http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2015/10/assolto-erri-de-luca-la-fortuna-di.html

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Intanto,  ringrazio Claudio per il bel pezzo, brillante e ben argomentato.
Sì, è vero, la mia risposta è in qualche misura troppo semplice, forse semplicistica. Ma, come dire, se si scinde, come si deve, la discussione dalla decisione, come in tutti i processi democratici, una volta discusso, fino in fondo, si deve decidere. Ed è purtroppo ovvio - nessuno è perfetto (presupposto solo in apparenza banale) -   che la decisione presa, talvolta,  non sia quella giusta.  Di qui, ripeto, la possibilità, di correggere il tiro, convincere gli elettori delle proprie buone ragioni, sedere, da vincenti, in Parlamento, e “ri-decidere” di nuovo tutto.  E così via,  molto semplicemente. O se vuoi, Claudio, "semplicisticamente"... 
Certo, si tratta di un processo formale, con i suoi buchi neri, legati alla sostanza sociologica delle cose: rapporti di forza, valenza comunicativa, qualità delle classe dirigenti, interazione  tra oligopoli economici ( ma anche pubblici e politici), condizionalità varie  (come ad esempio il rapporto tra  tempi dell’innovazione  tecnologia e  tempi dell’ innovazione politica). Però è proprio questo e solo questo (il processo formale) - lo si chiami  pure un  "espediente", evitando sempre possibili e pericolose deificazioni -  che faticosamente siamo riusciti a costruire, riuscendo a  sostituire, almeno nella politica interna,  i  ballots ai bullets.  E non è poco.  
Naturalmente, si tratta di un equilibrio precario, che si regge sul buonsenso  di  capire, semplificando, che, politicamente (e proceduralmente), se oggi  tocca  a me, domani potrebbe toccare a te… E che quindi dovremmo darci tutti (maggioranza e minoranza) una “regolata”… Ciò significa che la prospettiva ballots,  va difesa a prescindere dai contenuti (che possono piacere o meno).  Un tempo  i retori  parlavano dell’ Idem sentire de re publica (nel nostro caso, oggi,   si potrebbe parlare, meno enfaticamente,  di  Idem sentire de metodo o procedure democratico-repubblicane).   Sicché, ogni volta ( ovviamente non  mi riferisco alle forme  non violente di disobbedienza civile), che la civile protesta  rischia di  trasformarsi  in protesta violenta, si esprime (piaccia o meno)  una preferenza di massima per i ballots.  Tradotto:  ci si colloca fuori  del processo descritto sia dal punto di vista storico (dai ballots ai bullets) sia formale (ballots invece di bullets).
Si dirà,  la storia non può essere costretta dentro le maglie di un processo formale. Giusto. Però lo si dica chiaramente, senza invocare, questo o quel nume umanitario, dal momento che allora lo scontro non è più tra un certo gruppo sociale e una parte dell’ establishment politico, o se si vuole tra una maggioranza  e una minoranza  che condividono le stesse regole,  ma - ecco il punto -  tra un potere costituente e un potere costituito.  E, soprattutto, si accettino allora  tutti  i pro e i contro di un conflitto polemico, che con la democrazia (come processo - faticosissimo -  di neutralizzazione del polemos attraverso la dialettica interna alle istituzioni ),  proprio perché basato sullo stato di eccezione,  non ha nulla a che vedere.   Tradotto: ci si avvia lungo una strada scivolosa  e pericolosa per tutti, che, in termini di escalation sociologica,  può condurre alla guerra civile... 
Sotto  questo profilo erano più “politicamente onesti”, pur nella loro ferocia,  i terroristi degli anni Settanta  dell'ineffabile  Erri De Luca che,  nonostante i  trascorsi e la cultura,  parla ipocritamente ( rilanciando a vanvera) di democrazia offesa, pur essendo al corrente dell'importanza delle procedure e della necessità, affinché la nostra democrazia possa sopravvivere, di rispettare le regole.       
Grazie ancora Claudio e un grande abbraccio.

Carlo Gambescia               



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