Il libro delle settimana: Stefano Anastasia, Manuel Anselmi, Daniela
Falcinelli, Populismo penale: una
prospettiva italiana, Wolters Kluwer - Cedam, Lavis (TN) 2015, pp. X-122,
euro 15,00.
http://shop.wki.it/Cedam/Libri/Populismo_penale_una_prospettiva_italiana_s556111.aspx |
Se ci si passa l'espressione: una
ventata di epistemologia fresca nell’asfittico mondo dell’Accademia. Non sapremmo come meglio definire Populismo
penale. Una prospettiva italiana (Wolters Kluwer - Cedam). Ottimo
libro a cura di tre bravi ricercatori
dell’Università di Perugia negli ambiti, rispettivamente, della filosofia del
diritto, della sociologia politica, del diritto e della criminologia: Stefano Anastasia, Manuel Anselmi, Daniela Falcinelli.
Procediamo
per gradi.
Che
cos’è il populismo penale? Lo spiega Manuel Anselmi nella sua densa rassegna iniziale (“Populismo e populismi”,
pp. 1-19), prendendo spunto da una innovativa, perché euristicamente agguerrita,
letteratura anglofona in argomento. Si
veda ad esempio, più in generale, l’eccellente schema, desunto da Noam Gidron e Bart Bonikowski, Variety of Populism (2013), che
riassume i tre principali approcci allo
studio del populismo: come ideologia, come stile politico, come strategia
politica (p. 5).
Ma torniamo al nocciolo del libro. Scrive
Anselmi: «L’uso strumentale di tematiche legate alla giustizia e al sistema
penale da parte dei candidati
nell’ambito delle campagne elettorali ha posto le prime questioni di
populismo penale. Molti studi hanno registrato che nonostante i dati statistici
indicassero un decremento dei crimini, i
politici utilizzavano accortamente
argomentazioni che incitavano l’opinione pubblica come se i dati della criminalità fossero aumentati e ci
fosse un rischio di criminalità dilagante», sicché «l’importante non era la
realtà della situazione ma la percezione del crimine da parte dell’opinione
pubblica. Si stabiliva un effetto di distorsione della realtà sulla base del
soddisfacimento di stereotipi e pregiudizi fondati su aspetti irrazionali» (p.
16). Et voilà, in poche fresche e chiare battute, il populismo penale!
Anselmi,
sulla scorta delle analisi di John Pratt (Penal populism, 2007), indica le tre
principali caratteristiche del fenomeno: la glamourizzazione
(glamourization), nel senso di una spettacolarizzazione mediatica della
dimensione criminale, inesistente negli anni Cinquanta del Novecento; la destatisticalizzazione (destatisticalization),
ossia il fatto di ignorare nel dibattito i dati statistici reali, per accrescere nell’opinione
pubblica la percezione del rischio, da
sfruttare elettoralmente; la giustizia
riparativa ( restorative and
reparative penalties), cioè in luogo del recupero del reo, caposaldo
dell’illuminismo giuridico occidentale,
si enfatizza, la natura di riparazione sociale della pena verso la comunità, nei termini brutali, senza alcuna mediazione sociale, del noi (i
buoni: gli onesti) contro loro (i cattivi: i disonesti), punto.
Della
degenerazione populista del diritto
penale e delle auspicabili inversioni di tendenza si occupa Daniela Falcinelli
(“Dal diritto penale ‘emozionale’ al diritto penale ‘etico’ “, pp. 21-96).
Sulla scorta di studi italiani, in primis
i lavori di L. Ferrajoli, la Falcinelli
individua tre «classici capisaldi» del
populismo penale: classismo, nel
senso di esclusione, per l’appunto classista, dei potenti a danno della piccola
criminalità di strada); pubblica
sicurezza invece di sicurezza sociale, ossia sostituzione, indotta a
livello di senso comune, dell’idea di
repressione poliziesca a quella di prevenzione in chiave di estensione
dei diritti sociali; drammatizzazione
dell’insicurezza, come ben dimostrato nel saggio di Anselmi. Il che, nell'insieme cognitivo, implicherebbe in
prospettiva (perché si tratta di un fenomeno in atto) l’ imbarbarimento dei
costumi e il forte rischio - quasi una certezza - di una involuzione autoritaria, se non addirittura totalitaria. Di qui, la necessità, andando oltre la logica dell’emergenza (capace di privilegiare soltanto la cattiva risposta esemplare,
simbolica, emotiva) di un ritorno alla ragione e al diritto penale mite, eticamente
profondo, filiazione di un “diritto vivente”, opera pratica di giudici saggi e prudenti. Anche perché, come giustamente rileva Falcinelli, «la ‘riserva di legge’, nella
sua costante ed ‘assoluta’ valenza si fonda del resto proprio sull’ipotesi che
siano l’interpretazione e l’applicazione giurisprudenziali le attività capaci
di produrre in concreto la certezza storica del diritto: attraverso un
autocontrollo di tipo esclusivamente culturale e quindi temporalmente
adattabile ed adattato. È il neo-illuminismo del diritto penale, che il giudice
riconosce (da ‘bocca della legge’a) ‘custode del diritto’ » (p. 47).
Di
smontare - se ci si perdona la caduta di stile - sul piano statistico la
drammatizzazione populista dell’
emergenza penale si occupa Stefano Anastasia (“Materialità del
simbolico. I depositi del populismo penale nel continuum penitenziario”, pp.
97-122). Dati, copiosi e brillantemente commentati, ai quali rinviamo il lettore. Quel che più colpisce del suo saggio è l’ accurata descrizione dell’ involuzione dell’ultimo
ventennio: un vero e proprio terremoto a livello di mentalità, come ad esempio a proposito delle
amnistie. Osserva Anastasia: « Ciò che
appare davvero sorprendente, e che dà senso a quel che accade - sul versante della
giustizia penale e del carcere - in
tutto il ventennio è il mutamento nell’opinione pubblica (o in come essa viene
rappresentata). Quella stessa società civile che per i primi quarant’anni della
storia dell’Italia repubblicana ha tollerato, senza mai farne ragione di
scandalo, il governo del sistema penale e penitenziario sulla base dell’uso
routinario della clemenza diventato un topos della commedia all’italiana
(amnistiato era il Memmo Carotenuto
de I
soliti ignoti così come Marcello Mastroianni di Divorzio all’italiana), avverte ora come intollerabile il ricorso a
un simile strumento, mostrando piuttosto una propensione opposta, alla
severità nel giudizio penale così come nell’esecuzione» (p. 120). Perché? Secondo Anastasia, lo stato securitario a tolleranza zero (sulla
carta, ovviamente) avrebbe sostituito lo stato sociale, quale strumento di consenso, nell’immaginario
collettivo e istituzionale. Per dirla con una battuta: dal
tutti per uno, di derivazione socialdemocratica all’ognuno per sé
di taglio più liberista che liberale. Con tutte le distruttive conseguenze atomistiche del caso.
Al
di là del valore euristico del libro,
una ventata di aria fresca, come abbiamo ricordato, un filo rosso non più
descrittivo ma normativo lo attraversa: quello del rischio di veder scomparire sotto i
pesanti colpi del populismo penale, la
ragione giuridica, quale manifestazione
alta della nostra civiltà. Timore
giustificato e senza dubbio
condivisibile. Tuttavia - e su questo, se abbiamo capito bene, dissentiamo dagli autori - non basterà la riscoperta pura e semplice del
patriottismo costituzionale, magari coadiuvato
da abbondanti e non sempre economiche iniezioni di welfare.
Certo,
l’opera del giudice saggio e prudente nell’ambito del
diritto vivente e la meritoria missione della società civile, soprattutto nelle sue diramazioni volontaristiche e
assistenziali, possono essere importanti. Nessuno lo nega. Però non confideremmo troppo - ci si perdoni lo scivolone "populista", nessuno è perfetto... - nell’opera
di voraci e pigre burocrazie statali, talvolta autoelettesi perfino a custodi della costituzione, in realtà interessate più a se stesse che al buon
funzionamento del sistema (ammessa e non concessa la stessa riformabilità).
Purtroppo,
il grande assente, come trait
d’union fra costituzione e società continua ad essere la politica, che però sembra essere in cerca di scorciatoie. E il
populismo è una di queste. Sicché il cerchio si chiude. O meglio, ciò significa
che si deve ripartire proprio dalla riforma della politica.
Ma questa è un’altra storia.
Carlo Gambescia
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