In difesa del professor Giovanni
Scattone
Vengo anch’io? No, tu no!
E
così Scattone, anzi il professor Giovanni Scattone ha dovuto rinunciare alla
cattedra presso un istituto tecnico, cattedra che gli spettava per legge e per merito. Perché “dovuto”? Per ragioni
extragiuridiche: di “pressione sociale”.
Infatti, Scattone ha giustificato la sua rinuncia riferendosi, giustamente e nobilmente, alla mancanza
di serenità, che non gli avrebbe permesso di insegnare.
Non
è una bella pagina. Soprattutto perché i colpevolisti ad oltranza calpestano la
legge e la vita di uomo che, come si dice,
ha pagato per i suoi errori. Scattone - sia detto senza alcuna ironia
- ci ricorda lo sfortunato personaggio
della canzone di Jannacci. Egli, disperatamente, vuole rifarsi una vita, ma ogni
volta al suo “Vengo anch’io” si risponde “No, tu no!”.
Però
non bisogna stupirsi neppure più di tanto, perché, dal punto di vista logico e
sociologico, semplificando, il concetto di astrattezza e generalità delle
leggi è uno dei più ostici. Gli uomini,
soprattutto, sul piano collettivo, ossia
dove entrano in gioco le emozioni, tendono a puntare il dito sul particolare
piuttosto che sull’universale. Vogliono, un nome, un cognome, una vittima, se
si vuole un capro espiatorio (nel senso comune, non girardiano).
Ci
spieghiamo meglio.
Da
un lato, esiste la verità giuridica e giudiziaria, parziale
quanto si voglia, ma patrimonio, come dire, universale, applicabile a tutti ed entro termini temporali precisi;
dall’altro resiste, soprattutto sotto
l’aspetto collettivo, la credenza emotiva nella natura perpetua della colpa
morale del singolo.
Ciò
spiega perché, di fatto, si è impedito
al professor Scattone di insegnare. Da
filosofo del diritto, il professore, capirà, amaramente, magari scuotendo il capo: purtroppo - stiamo semplificando - lo spirito di vendetta degli antichi continua a prevalere
sulla ragione giuridica dei moderni.
Probabilmente, però, la questione travalica la dicotomia antico/moderno,
perché crediamo si tratti di un fattore antropologico.
Poi,
naturalmente, esistono i condizionamenti politici, le ideologie gli
opportunismi eccetera, che implicano giravolte che, in base al presunto “colore”
politico del capro espiatorio di turno, trascorrono dalla difesa della legge
astratta e generale alla condanna emotiva a vita del "post-colpevole". Dipende,
insomma. Però, questa, è un’altra
storia.
Carlo Gambescia
Carissimo Carlo, sei un fine intellettuale (ma soprattutto una brava persona) e lo dimostri da questo articolo che compendia millenni di Civiltà. Detto questo, per una volta non sono perfettamente in linea con quanto tu mirabilmente sostieni. Usi il fioretto, io per natura il gladio, combatto annullando la distanza e a volte aumenta il rischio di ferirsi, è vero, ma tant'è. L'ammissione di una colpa non estingue certo il reato, ma mette il colpevole in una condizione etica diversa rispetto al reo che persegue nel suo diniego. Scattone si dice innocente, anche se il tribunale degli uomini sostiene il contrario. Il problema sta in questo: se è innocente (io non lo credo, ma fa lo stesso) allora ogni ora di galera e ogni infamia subita sono un affronto alla verità e alla sua persona; se, invece, è colpevole, Scattone comunque ha pagato (si fa per dire) con la reclusione e, quindi, lo Stato deve ripristinare tutti i suoi diritti di uomo libero. Tuttavia, c'è una strana situazione di fondo. Altri casi conosco in cui dipendenti dello Stato, condannati per reati penali, dopo aver scontato pene spesso risibili, rientrano nel posto di lavoro, come se niente fosse. Ma ciò non mi scandalizza. Quello che non sopporto, anzi, mi viene l'orticaria, è lo status giuridico di perdonanza celestiniana che vige oggi in Italia, sin dalla Legge Gozzini. Il perdonismo peloso, quello del “nessuno tocchi Caino”, di pannelliana memoria e ora ripreso dal gesuita biancovestito, sai, il papa più cristiano di Gesù Cristo. Errori giudiziari se ne fanno, eccome, alcuni pure dimostrati, ma chissà quanti altri rimangono nascosti. Questo margine drammatico dell'errore, dovrebbe far tremare ogni persona. Ma, carissimo Carlo, vorrei vedere un Paese normale (l'Italia non lo sarà mai) in cui le vittime non vengono dimenticate, anzi, ricordate ogni santo giorno e i reprobi, che paghino seriamente sia con la giustizia degli uomini, che con quella della loro coscienza. Un uomo come Scattone che ha ammazzato una ragazza per dimostrare la sua volontà di potenza, orchestrando il delitto perfetto per intenderci, è doppiamente colpevole. Altro che insegnare a scuola. Che lo si mandi a riempire le buche delle nostre strade, così impara quanto è bassa la terra.
RispondiEliminaGrazie Angelo del commento. Non aggiungo altro. Credo di aver già espresso bene la mia posizione, delineando - spero con la stessa chiarezza - i margini cognitivi che mi sono imposto.
RispondiEliminaSono problematicamente d'accordo.
RispondiEliminaLo sarei del tutto se la dimensione del problema fosse solo di tipo penalistico.
A chiunque - almeno oggi, pure in teologia e pure in alto loco - fa orrore il fine pena mai (salvo il caso di specifiche incarnazioni di "male assoluto", di volta in volta individuate ad libitum).
Ma la dimensione travalisca il problema della pena: comportamento doloso o colposo che non si risolve solo così, nei suoi risultati. C'è un aspetto che attiene agli esiti del "fare male all'altro" che l'ordinamento giuridico sanziona in altro modo (risarcimenti e pene pecuniarie, sanzioni amministrative...) ma che è, in ultimo, umanamente non emendabile.
Scotomizzare questo "ultimo non umanamente emendabile" equivale, magari senza volerlo, a moltiplicare il male dovuto al singolo comportamento, realizzando un vero e proprio "fine pena mai", nei confronti delle vittime, ma pure della società intera.
Bisogna quindi mantenere - senza taglarla via con l'acccetta - la polarità tra la soluzione sociale stabilita dalla norma scritta e il danno (umanamente in ultimo inemendabile) che il comportamento riprovevole inevitabilmente arreca.
Polarità che i due commenti iperanonimi hanno utilmente riproposto.
Facevo riflessioni simili, ascoltando questa vera lezione di vita: http://www.tv2000.it/siamonoi/video/massimo-coco-figlio-del-procuratore-francesco-coco-assassinato-dalla-brigate-rosse/
Luigi Puddu
Ben tornato al commento Luigi. Concordo, pur precisando che scopo primario del post, magari non dichiarato esplicitamente, era mettere il luce il ruolo dell'emotività, sociologicamente parlando, nei processi sociali ( collettivi), che sono, come dire, il contesto di quelli "giudiziari"... Tutto qui. Grazie!
RispondiEliminaChiedo scusa, Carlo. Ho copiato inavvertitamente una frase presa da un mio commento in altro blog.
RispondiEliminaPer migliore comprensione li trascrivo.
L.P.
12/09/2015 09:40 hwv3rA
"Vista la clemenza della giustizia formale, le contestazioni costituiscono, in un certo senso, quel di più che la giustizia sostanziale chiede a piena voce. Si dirà che una volta scontata la pena il delinquente ritorna libero e 'integro' alla società: è così in molti casi, non in tutti, non in questo particolare. Ci sono episodi che segnano la vita di una persona in modo indelebile e che mai nessun giudice può cancellare. E ci sono vittime innocenti che reclamano giustizia molto al di là dei confini della giustizia umana."http://www.onlywordsnoblog.net/scattone_marta_russo_e__la_giustizia.html
12/09/2015 09:27 YZN4Ez
"Cos’è rimasto, dunque, dell’antica grandezza trasformativa del perdono? Nulla, o quasi. Nel perdonismo corrente, la parola ha perso ogni valenza trasformativa, e perfino etica. E’ diventata uno slogan buonista, privo di forza morale. Ha perso gran parte della sua grandezza originaria (senza nulla togliere al valore di chi sia ancora capace di darlo col cuore). E’ diventato una parola qualunque. La rabbia urlata della mamma di Vanessa dice proprio questo: basta a questo perdonismo imperante. Basta alla negazione sistematica dei diritti degli Abele. Basta con la banalizzazione delle colpe e con l’assoluzione, di fatto, degli assassini. Basta con l’obbligo del perdono: ognuno ha tutto il diritto di non perdonare, senza per questo meritare la stigmatizzazione sociale. Basta, infine, all’urgenza, nel perdono, con il corpo di una figlia, uccisa da poche ore, ancora lì, davanti agli occhi. Basta slogan, perché vogliamo giustizia. Il perdono vero, sentito, merita rispetto e ammirazione, quando viene dal cuore. Ma non può essere richiesto. Perché è un gesto raro, che necessita comunque di un tempo interiore, lungo e silenzioso, per attraversare la solitudine del dolore. E l’irreparabile verità della morte." (Graziottin)
Grazie!
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