venerdì 11 settembre 2015

Un  Parlamento delegittimato discute la riforma costituzionale  di Renzi
    Magari fosse questo il problema... 
di   Teodoro Klitsche de la Grange



Non è stata data soverchia attenzione al fatto che questo Parlamento, il quale sta discutendo la riforma costituzionale voluta da Renzi, è stato eletto con la legge elettorale annullata dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza 1/2014; onde, ad applicare il principio c.d. della nullità derivata i di esso atti sono, conseguentemente, nulli o comunque annullabili (ivi compresi la fiducia al governo in carica e l’elezione di due Presidenti della Repubblica).
Tale situazione di illegalità “altolocata” non sorprende: non è che la conferma di due costanti ascrivibili al comportamento di questa classe dirigente: la prima è che la legalità si applica a tratti e ad hoc, ai nemici piuttosto che agli amici, e soprattutto secondo le opportunità che se ne possono trarre; la seconda che la legalità ha (relativamente) poco a che fare con l’esistenza dello Stato e della comunità, che si fonda su presupposti di carattere politico e non (meramente) giuridico e ancor più non normativi, onde l’ordinamento continua ad esistere, anche se non-legale.
La nullità dell’elezione dei parlamentari non ha impedito infatti né che un governo vi fosse né che l’Italia fosse rappresentata, anche a livello internazionale (anche se più che altro per prendere ordini).
Quel che ancor meno è stato considerato è che in genere è l’illegalità (la rottura, la violazione, l’abrogazione della legalità vigente) ad essere il presupposto (l’ambiente propizio) all’instaurazione di una nuova costituzione e alla conseguente instaurazione di una (differente) legalità.
Contrariamente a quanto pensa chi vorrebbe espungere dal diritto, ma con ciò dal mondo reale, i momenti di crisi, di rottura, di trasformazione accelerata di una comunità politica e del suo ordinamento, questo non è possibile e la storia lo conferma. Così come il pensiero politico, giuridico e filosofico degli ultimi secoli, solo a voler citare una piccola parte di coloro che se ne sono occupati.
Così Spinoza sosteneva aderendo al detto (e all’esempio) di Pedro IV d’Aragona, che un cambiamento costituzionale non può accadere se non per diritto di guerra e quindi, con spargimento di sangue (Trattato politico, cap. VII, 30); per Lassalle una costituzione è il risultato degli effettivi rapporti di potere in una data società; secondo Santi Romano è attraverso le crisi e le trasformazioni dell’ordinamento che s’instaura un nuovo assetto costituzionale.
A voler fare esempi storici – limitati all’Italia – i mutamenti costituzionali reali avvenuti dall’unità d’Italia in poi sono stati dovuti a guerre: la prima guerra mondiale provocò la trasformazione da monarchia liberale a regime fascista, la seconda da questo all’ordinamento repubblicano.
Un cambiamento di costituzione non è revisione né modifica, e con queste non dev’essere confuso: è decisivo al riguardo che il potere di revisione e modifica della costituzione è comunque costituito (previsto e disciplinato nell’ordinamento vigente) mentre quello di abrogarla o abolirla è costituente (e spesso questo non è quello che era presupposto tale per la costituzione abrogata o abolita).
Per cui, contrariamente a chi vorrebbe risolvere il problema riducendolo a questione giuridica, di applicazione di norme, le lotte costituzionali trovano la propria causa non nell’osservanza di procedimenti preventivamente dati ma nella trasgressione/violazione di questi.
Né la legalità o meno di una costituzione è rilevante ai fini della medesima: come scrive Hegel una costituzione è adeguata quando corrisponde allo spirito del popolo.
Deriva da ciò che la non-legalità della vicenda in atto non preoccupa granché, né delegittima quello che potrà uscirne fuori: se il risultato di tale opera sarà adeguato alla necessità ed alle aspettative sarà anche vitale e destinato a durare: altrimenti no. Su questo l’osservanza di procedure e formalità ha scarsa o nulla incidenza.
Quello che, invece, preoccupa è che a dover realizzare e deliberare queste riforme è, in primo luogo, la stessa classe politica che ha sostenuto il vecchio assetto costituzionale ed è stata selezionata vigente lo stesso (e quindi con le procedure da quello prescritte).
Che governanti tali possano decidere, da protagonisti, un assetto realmente diverso è fatto che la storia manifesta raramente: un’innovazione nella forma istituzionale è preceduto da un rinnovamento della classe dirigente e non l’inverso. Anche se nel caso del crollo del comunismo sono state, in larga parte, frazioni della (vecchia) classe dirigente a guidare la transizione dal vecchio al nuovo ordine. Per cui potrebbe succedere che una simile circostanza si verificasse, tenuto conto dell’opinione di Pareto che attribuiva a frazioni eterodosse delle (vecchie) elites le innovazioni nelle istituzioni politiche.
Dove invece è d’uopo essere pessimisti è nel fatto che la consapevolezza di cambiamenti radicali – e delle cose da cambiare – è più diffusa tra i governati che tra i governanti. Invece di appuntare le innovazioni sull’instabilità del governo, sulla scarsa efficacia dei controlli pubblici, sulla inefficienza della pubblica amministrazione, sullo strapotere burocratico, il progetto  di modifica costituzionale è indirizzato verso un (sostanziale) depotenziamento e non-elettività del senato, e verso le consuete, ripetute, modificazioni alla legge elettorale che più che alla stabilità governativa, sembrava finalizzate al mantenimento al potere della vecchia classe (e coalizione) di governo.
Troppo poco per essere adeguati alle sfide del tempo e del mondo contemporaneo.


Teodoro Klitsche de la Grange

Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (  http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).

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