Un Parlamento delegittimato discute la riforma costituzionale di Renzi
Magari fosse questo il problema...
di Teodoro Klitsche de la Grange
Non è stata data soverchia attenzione al fatto
che questo Parlamento, il quale sta discutendo la riforma costituzionale voluta
da Renzi, è stato eletto con la legge elettorale annullata dalla Corte
Costituzionale con la nota sentenza 1/2014; onde, ad applicare il principio
c.d. della nullità derivata i di esso atti sono, conseguentemente, nulli o
comunque annullabili (ivi compresi la fiducia al governo in carica e l’elezione
di due Presidenti della Repubblica).
Tale situazione di illegalità “altolocata” non
sorprende: non è che la conferma di due costanti ascrivibili al comportamento
di questa classe dirigente: la prima è che la legalità si applica a tratti e ad hoc, ai nemici piuttosto che agli
amici, e soprattutto secondo le opportunità che se ne possono trarre; la
seconda che la legalità ha (relativamente) poco a che fare con l’esistenza
dello Stato e della comunità, che si fonda su presupposti di carattere politico
e non (meramente) giuridico e ancor più non normativi, onde l’ordinamento
continua ad esistere, anche se non-legale.
La nullità dell’elezione dei parlamentari non ha
impedito infatti né che un governo vi fosse né che l’Italia fosse
rappresentata, anche a livello internazionale (anche se più che altro per
prendere ordini).
Quel che ancor meno è stato considerato è che in
genere è l’illegalità (la rottura, la violazione, l’abrogazione della legalità
vigente) ad essere il presupposto (l’ambiente propizio) all’instaurazione di
una nuova costituzione e alla conseguente instaurazione di una (differente)
legalità.
Contrariamente a quanto pensa chi vorrebbe
espungere dal diritto, ma con ciò dal mondo reale, i momenti di crisi, di
rottura, di trasformazione accelerata
di una comunità politica e del suo ordinamento, questo non è possibile e la
storia lo conferma. Così come il pensiero politico, giuridico e filosofico
degli ultimi secoli, solo a voler citare una piccola parte di coloro che se ne
sono occupati.
Così Spinoza sosteneva aderendo al detto (e
all’esempio) di Pedro IV d’Aragona, che un cambiamento costituzionale non può
accadere se non per diritto di guerra e quindi, con spargimento di sangue (Trattato politico, cap. VII, 30); per
Lassalle una costituzione è il risultato degli effettivi rapporti di potere in
una data società; secondo Santi Romano è attraverso le crisi e le trasformazioni
dell’ordinamento che s’instaura un nuovo assetto costituzionale.
A voler fare esempi storici – limitati
all’Italia – i mutamenti costituzionali reali
avvenuti dall’unità d’Italia in poi sono stati dovuti a guerre: la prima guerra
mondiale provocò la trasformazione da monarchia liberale a regime fascista, la
seconda da questo all’ordinamento repubblicano.
Un cambiamento di costituzione non è revisione
né modifica, e con queste non dev’essere confuso: è decisivo al riguardo che il
potere di revisione e modifica della costituzione è comunque costituito (previsto e disciplinato
nell’ordinamento vigente) mentre quello di abrogarla o abolirla è costituente (e spesso questo non è
quello che era presupposto tale per la costituzione abrogata o abolita).
Per cui, contrariamente a chi vorrebbe risolvere
il problema riducendolo a questione giuridica, di applicazione di norme, le lotte
costituzionali trovano la propria causa non nell’osservanza di procedimenti
preventivamente dati ma nella trasgressione/violazione di questi.
Né la legalità o meno di una costituzione è
rilevante ai fini della medesima: come scrive Hegel una costituzione è adeguata
quando corrisponde allo spirito del popolo.
Deriva da ciò che la non-legalità della vicenda
in atto non preoccupa granché, né delegittima quello che potrà uscirne fuori:
se il risultato di tale opera sarà adeguato alla necessità ed alle aspettative
sarà anche vitale e destinato a durare: altrimenti no. Su questo l’osservanza
di procedure e formalità ha scarsa o nulla incidenza.
Quello che, invece, preoccupa è che a dover
realizzare e deliberare queste riforme è, in primo luogo, la stessa classe
politica che ha sostenuto il vecchio assetto costituzionale ed è stata selezionata
vigente lo stesso (e quindi con le procedure da quello prescritte).
Che governanti tali possano decidere, da
protagonisti, un assetto realmente diverso è fatto che la storia manifesta
raramente: un’innovazione nella forma istituzionale è preceduto da un
rinnovamento della classe dirigente e non l’inverso. Anche se nel caso del
crollo del comunismo sono state, in larga parte, frazioni della (vecchia)
classe dirigente a guidare la transizione dal vecchio al nuovo ordine. Per cui
potrebbe succedere che una simile circostanza si verificasse, tenuto conto
dell’opinione di Pareto che attribuiva a frazioni eterodosse delle (vecchie) elites le innovazioni nelle istituzioni
politiche.
Dove invece è d’uopo essere pessimisti è nel
fatto che la consapevolezza di cambiamenti radicali – e delle cose da cambiare
– è più diffusa tra i governati che tra i governanti. Invece di appuntare le innovazioni
sull’instabilità del governo, sulla scarsa efficacia dei controlli pubblici,
sulla inefficienza della pubblica amministrazione, sullo strapotere
burocratico, il progetto di modifica
costituzionale è indirizzato verso un (sostanziale) depotenziamento e non-elettività
del senato, e verso le consuete, ripetute, modificazioni alla legge elettorale
che più che alla stabilità governativa, sembrava finalizzate al mantenimento al
potere della vecchia classe (e coalizione) di governo.
Troppo poco per essere adeguati alle sfide del
tempo e del mondo contemporaneo.
Teodoro Klitsche de la Grange
Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato, giurista, direttore del
trimestrale di cultura politica “Behemoth" ( http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi
libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il
Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003),
L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009), Funzionarismo (2013).
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