Si noti un particolare. Che poi particolare non è. Si chiama colpo di fortuna. Il destino della Russia, un megastato canaglia, ha incrociato quello di un altro megastato tramutatosi da poco più di un mese in canaglia.
La Russia, incapace di vincere in tre anni una guerra che immaginava di vincere in tre giorni, si ritrova tra le mani, per uno dei fortunati scherzi del destino, un black jack che si chiama Trump. Il grande traditore della causa dell'Occidente.
La Russia che stava addirittura per perdere, nel senso di un
impantanamento in una guerra che fino a un mese fa poteva portare alla
caduta di Putin, di colpo vede materializzarsi lo smembramento dell’Ucraina e un alleato, nuovo di zecca, non meno autocrate di Putin.
Se non è fortuna questa.
Si apre però un altro problema. Alla fortuna e alla potenza si accompagna quel “qualcosa” in più? Che può far vincere a Stati Uniti e Russia, megastati canaglia, la sfida? Un “qualcosa” che li metta nelle condizioni di tagliare il traguardo con la pipa in bocca?
Difficile dire. In teoria, dal punto di vista dei rapporti di forza la partita sembra perduta: il gigantesco arsenale russo-americano da una parte e Ucraina-Europa in affanno dall'altra, sono fatti che parlano da soli. Del resto già fanno capolino, anche in Italia, i consiglieri fraudolenti che invitano Zelensky a non fidarsi di un'Europa squattrinata... E di chi si dovrebbe fidare il leader ucraino di Trump e Putin?
Però, in pratica, va considerato un altro fattore – il “qualcosa” di cui sopra – che potrebbe interferire con potenza e fortuna e favorire la resistenza ucraina e la vittoria dell’Occidente (al momento limitato alla sola Europa): l’orgogliosa consapevolezza di essere come nel 1939-1945 dalla parte del bene. Della ragione, se si vuole. Un “qualcosa” che manca agli aggressori.
Il nostro non è un attacco di idealismo. Siamo consapevoli che la propaganda russa e (ora) americana hanno gioco facile, dinanzi a masse terrorizzate a dovere con lo spauracchio della guerra atomica, nel presentare Zelensky come un criminale e l’esercito ucraino come l’esercito di Hitler. Che amarezza. Incredibile (ma vero): contro ogni naturale senso di giustizia si accusa il debole di opporsi al forte.
In realtà, l’Ucraina del 2022 sta alla Polonia del 1939. Tra
l’altro, anche allora, due megapotenze canaglia, Germania nazista e
Unione Sovietica, si spartirono la Polonia. Ora, purtroppo, gli Stati Uniti sono passati al nemico, nel senso che il comportamento americano ricorda quello della Germania nel 1939. Quindi l'Europa è più sola.
Però, nonostante tutto, è fondamentale che il messaggio positivo (“Siamo dalla parte del bene”), torni a circolare almeno a livello di élite europee: di coloro che devono prendere le decisioni. Quanto all’Ucraina, per ora, la compattezza morale, non solo a livello di élite, è fuori discussione.
Ma ancora più importante è ciò che vi è dietro il messaggio (il semplice fatto comunicativo): l’aggressione di un debole (Ucraina) da parte di un forte (Russia). Che non può non rinviare a un elementare senso di giustizia: la marcia in più per vincere.
Si pensi, a tale proposito, quando ci si allunga per aiutare una persona che sta per cadere. Si pensi a un senso di solidarietà che scatta in automatico nell’animo delle persone, senza tante mediazioni culturali.
Già conosciamo la domanda. Quindi anticipiamo la risposta: il fatto che la solidarietà, storicamente parlando, non sempre si tramuti in aiuto concreto, non significa che il concetto di solidarietà verso il più debole non scatti regolarmente. Il punto è che tra il sentire e il fare, si frappone la cultura politica della gestione degli interessi. Per farla breve: “Sì va bene, poverini, ma ci conviene aiutarli?”.
Ecco, una parte dell’Europa oppone gli interessi (“Sì, però”), variamente motivati ( geopolitica, pacifismo, reale e genealogico, “sulla guerra che non doveva cominciare”, bilancio economico, eccetera), alla solidarietà naturale (“Aiutiamo senza se e senza ma”), ispirata da un senso di giustizia insito nell’essere umano.
Il sentire che si tramuta in fare, come in occasione delle grandi calamità, rappresenta il plusvalore (congiuntamente a un apporto importante sul piano delle risorse) che può fare la differenza tra “stati perbene” e “stati canaglia”. Quel “qualcosa” cui accennavamo nell’incipit.
Si dirà: ma allora i palestinesi, i curdi, le altre minoranze oppresse sparse nel mondo? Probabilmente, pur scattando, il senso di giustizia non si traduce in aiuto, perché prevale la cultura di gestione degli interessi.
La realtà è imperfetta, purtroppo. Non sempre vincono i buoni. O comunque gli innocenti. Siamo davanti al “problema” Benito Cereno, ben colto nell’ omonimo racconto di Melville,
Cereno capitano di una nave, sequestrato dagli schiavi, che vogliono tornare in africa, dopo aver massacrato l’ equipaggio. Opporsi e morire? Per una causa cattiva (la schiavitù)… Oppure lasciarsi trascinare dagli eventi? Giustificando uccisioni, ammutinamento. In fondo si tratta di una buona causa (l’abolizione della schiavitù)…
In Ucraina, nonostante tutto, la causa è buona, in sintonia con un naturale sentimento di giustizia. Ed è ancora possibile avere la meglio su due stati canaglia, Stati Uniti e Russia. Quanto meno tenerli a bada. In attesa di tempi migliori. Cioè, per dirla in modo più chiaro, in attesa che gli Stati Uniti rinsaviscano e le destre tornino a cuccia.
Resistere, insomma. Lasciando spazio alla “persona perbene” che è in ognuno di noi.
Nel romanzo di Melville vincono i cattivi. Cereno, il capitano, torna libero, dopo che la violenza dell’uomo bianco sì è abbattuta sugli schiavi ribelli.
Facciamo sì che nel romanzo dell’Ucraina vincano i buoni.
Carlo Gambescia
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