martedì 19 aprile 2022

“Chi ama la zia, chi va a Porta Pia”. Sulla trasmissione sociale del dolore

 


Ieri mi trovavo al ristorante. Ascoltavo discorsi incentrati su cibo e automobili elettriche. Il cibo, come lo sa trattare, diciamo a parole, la gente viziata di oggi, divisa tra diete, ampi margini di scelta in supermercati sempre pieni di merci, con qualche elogio del chilometro zero, senza capire che l’autarchia alimentare, indotta da una guerra mondiale estesa anche all’Ovest, svuoterebbe i supermercati e le tasche.

Non meno istruttive le varie tesi sul lancio delle automobili elettriche, “ecologiche”, come se l’approvvigionamento dell’ energia fosse solo una questione di colonnine e non di una  possibile  chiusura dei rubinetti russi e conseguenti razionamenti di energia, eccetera.

Il miniquadro sociologico che ho colto, tra una portata e l’altra, è quello di un’ Italia ( ma altrove il sentire sarà identico) che sembra non rendersi conto dei catastrofici rischi legati alla tremenda guerra di conquista russa in Ucraina.

Forse la gente rimuove. Forse non si vuole pensare al peggio. Possono essere date varie spiegazioni.

Ciò che però credo sia alla radice della questione è la difficile trasmissibilità sociale del dolore. Quindi in senso sociologico. Non è solo un problema di comunicazione sociale errata, di possibili aggiustamenti del tiro massmediatico. C’è altro sotto. Provo a spiegarlo.

Le attività che ognuno di noi svolge giorno dopo giorno, sono una specie di maschera delle abitudini: comportamenti ripetitivi ritenuti imprescindibili, solo perché esistono. Si acquista consistenza esistenziale (di esistere socialmente) lavorando, dedicandosi alla famiglia o all’amante, andando allo stadio, al cinema, in vacanza, eccetera, eccetera.

Quanto tempo, nell’ambito della pratica quotidiana, la gente comune può dedicare all’informazione? Sicuramente poco, rispetto a quelle che sono le altre necessità normali della vita quotidiana: più una società è complessa, quindi ricca di strutture e funzioni sociali, più la quotidianità – come cose da fare abitualmente – avvolge gli individui. Le abitudini consentono di vivere in una specie di eterno presente. L’uomo è un animale reiterativo e, piaccia o meno, mediamente ignorante.

Inoltre, il dolore dei mezzi di comunicazione sociale, è un dolore rappresentato: foto, video, testi . La riflessione è sempre sul dopo, mai sul prima o sul durante, cose del resto impossibili. Ovviamente, rappresentazione e commento del dolore, si mescolano insieme sulla linea ideologica delle diverse opinioni sulle cause del dolore, spesso antitetiche.

Riassumendo: alla maschera della quotidianità, che si risolve in un’attenzione distratta verso il dolore (certo, esclusi i professionisti del dolore, ad esempio i preti, e magari certi giornalisti…), si mescola un’iconografia ex post sul dolore che rimanda a una varietà di interpretazioni sulle ragioni del dolore.

Quotidianità, rappresentazione, relativismo sono un potente filtro che depotenzia la cognizione del dolore, per usare la terminologia letteraria gaddiana.

Il che spiega i discorsi sul cibo e sulle automobili elettriche mentre piovono bombe su Leopoli ai confini con la Polonia. Probabilmente, dal punto di vista sociologico, il dolore potrebbe essere perfettamente compreso dai superstiti soltanto nel momento stesso in cui quelle bombe piovessero sul ristorante.

Il che riporta alla trasmissione del dolore, che può essere tale solo in assenza di filtri sociali (quotidianità, rappresentazione, relativismo), o per meglio dire quando i filtri sociali sono spezzati dall’irruzione improvvisa del male che causa per l’appunto sofferenza: le bombe sul ristorante.

Insomma quando il dolore è diretto e immediato. Purtroppo l’empatia, che pure esiste, viene sempre dopo l’evento, e rimanda all’effetto strutturante di ricaduta dei filtri sociali. Siamo davanti a qualcosa di mediato non di immediato, di coevo all’evento. Come dire? Soffro con te, quando ti vedo a terra dolorante: quindi dopo l’evento traumatico.

Perciò è inutile condannare moralisticamente chi banchetti e discuta di cibo e di auto elettriche mentre incombe una guerra mondiale che sta causando, per ora non Italia, dolore. Gli uomini sono fatti cosi.

Semplificando, forse troppo: gli esseri umani devono provare per credere. Il punto è che la dinamica dei tempi sociali del dolore è discontinua. Di qui, per dirla con uno dei massimi sociologi del Novecento:

«Chi vive in baracca, chi suda il salario/ Chi ama l’amore e i sogni di gloria/ Chi ruba pensioni, chi ha scarsa memoria/ Chi mangia una volta, chi tira al bersaglio/ Chi vuole l’aumento, chi gioca a Sanremo/ Chi porta gli occhiali, chi va sotto un treno/ Chi ama la zia, chi va a Porta Pia…».

Carlo Gambescia

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