sabato 6 novembre 2021

TRA GUERRA E PACE


 

 

 Ieri discutendo con alcuni amici lettori  sulle origini della Grande Guerra e sulle responsabilità italiane (*),  mi sono  accorto che  a un certo punto   le  differenze  si radicalizzavano fino a polarizzarsi  sulla frattura tra fautori della pace, come  rifiuto della guerra in quanto tale, e sostenitori  della guerra, come inevitabile continuazione  della politica con altri mezzi.  

Quindi ho  ritenuto  inutile continuare a discutere… Anche come forma di rispetto per le opinioni altrui.  Tutte lecite, soprattutto, come ieri, quando ben argomentate e, cosa che non guasta, avanzate  in  modo cortese.

Per venire al nodo della questione,  sulla guerra e sulla pace esistono  quattro posizioni.

La prima, pacifista, sostiene  che la guerra va sempre rifiutata. Si deve fare il possibile per “espellerla” dalla storia. Il pacifista rifiuta non solo la guerra offensiva ma anche la guerra  difensiva (in caso di aggressione). Per dirla con Max Weber, siamo davanti a un agire  che non fa i conti, razionalmente, con la realtà, con le cose come sono, in termini di risorse e valori. Pura etica dei principi.    

La seconda,  semipacifista,  ritiene che  non ci si possa sottrarre  alla guerra giusta, ad esempio difensiva, se attaccati, oppure per aiutare un alleato ingiustamente aggredito. Racchiude un inizio di azione razionale, perché accetta, anche se solo in parte, il principio del calcolo.  

La terza, realista,  ritiene la  guerra inevitabile in alcune situazioni. Come nel caso della guerra preventiva, quindi offensiva,  per mettere fuori gioco un nemico che può farsi in futuro pericoloso. Le uniche ragioni avanzate sono quelle del calcolo, sulla convenienza o meno di una guerra, considerata un mezzo politico, come un altro (ma si badi, non l’unico).  Per dirla  sempre  con Weber siamo in pieno agire razionale rispetto allo scopo, nei termini di  un serbatoio di risorse e valori.  Pura etica della responsablità.

La quarta, ultrarealista,  giudica la guerra una vera e propria continuazione della politica con altri mezzi, violenti  nel caso. Ma in termini di unica soluzione di tutte le cose.  Di qui, la non distinzione tra guerre giuste e ingiuste, ma anche  i gravi   errori di calcolo a causa  di una irrazionale volontà di potenza non realmente  rapportata  a risorse e valori.    

Il pacifismo, come pensiero politico strutturato,   è un prodotto del XX secolo, frutto  di una cultura umanitaria, dalle radici religiose, che  affondano nella conquista pacifica, dall’interno, dell’Impero Romano d’Occidente.Tuttavia,  una volta asceso al potere,  il cristianesimo sostituì  al pacifismo assoluto, il semipacifismo delle guerre giuste e il realismo delle guerre preventive, salvo ricorrere contro “gli eretici” all’ultrarealismo.     

Il semipacifismo, spesso più che di convinzione è frutto di debolezza.  Si pensi  allo sconfitto, ad esempio, che di  necessità  fa virtù: semirazionalizza la sconfitta.  Si pensi, all’Italia, che, sconfitta, ha inserito nella Costituzione il rifiuto della Guerra (art. 11), salvo poi evocare (art. 52), il concetto di guerra difensiva.  

La terza concezione, quella realista, rinvia alla normale dinamica storica, segnata da  guerra e  pace,  da nuove guerre, nuove paci,  frutto  di strategie, tattiche,   alleanze,  alle quali gli uomini mai rinunceranno.  Diciamo che è  una visione che si fonda sullo studio e l’osservazione della storia, quindi sui calcoli circa la necessità di fare  la guerra o meno. Si potrebbe parlare di “realisti razionali”.

La quarta concezione, ultrarealista,  rinvia ai fondatori di grandi istituzioni politiche ( o più semplicemente che hanno tentato), come imperi e  monarchie ad esempio. Figure storiche (non facciamo nomi perché la scelta è ampia) che hanno sistematicamente usato la violenza per appagare una volontà di potenza  che solo secondariamente sarebbe sfociata, quasi in modo inconsapevole, in una realtà politica di largo respiro.

Come si può capire “espellere” la guerra dalla storia è molto difficile,  se non del tutto  impossibile. E per una semplice ragione:  non basta dire che non si vogliono avere nemici, per eliminare o evitare le guerre, perché, il semipacifista,  il realista e soprattutto l’ultrarealista, scorgono inevitabilmente i nemici e agiscono di conseguenza. Le buone intenzioni non bastano.  Si ricordi il famoso discorso,  riportato da Tucidide, degli Ateniesi  agli abitanti dell’isola di Melo: lasciandoli in pace,  la debolezza mostrata avrebbe rappresentato un cattivo esempio, un invito a ribellarsi,  per tutti gli altri stati e staterelli  sotto la  sfera d’influenza ateniese.

Né può valere la tesi all’educazione mondiale alla pace. Dietro la guerra, c’è una volontà di potenza, innata nell’uomo, che ciclicamente torna in superficie. Una volontà di potenza che si alterna con la volontà di pace, anch’essa forte.  Il che spiega, anche per altre ragioni strutturali, i periodi di pace.

Tuttavia la guerra è sempre possibile e probabile. Di qui la necessità di non farsi cogliere alla sprovvista. Ma anche  la pericolosità, per la sopravvivenza, del pacifismo puro, che ritiene sia sufficiente dichiarare di non volere nemici. In realtà è sempre il nemico a scegliere il suo nemico,  indipendentemente  dalle blandizie e arrendevolezze pacifiste.

Ciò che invece  si può fare  è regolamentare la guerra, fin dove possibile, via accordi internazionali,  sul piano organizzativo circa l’ uso di armi troppo potenti, come di certe forme disumane e inutili di eliminazione fisica del nemico.  

Ora, per tornare, alla discussione di ieri, il pacifismo del XXI secolo sembra essere molto forte nell’opinione pubblica, soprattutto dell’ Occidente euro-americano. Mentre non lo è  in Cina,  in Russia e nel mondo islamico.

Perciò prima o poi, l’Occidente, come l’Italia nel 1915, certo allora su scala più piccola,  si troverà a fare delle gravi  scelte.

Il discorso sull’utilità o meno di entrare in guerra nel 1915, dovrebbe  spingere  ancora oggi a  discutere la questione  dal punto di vista  del realismo politico, della terza posizione, del calcolo, quella dei “realisti razionali”.   

Per citare  Max Weber,  la discussione  dovrebbe esclusivamente   incentrarsi intorno  all’ agire razionale rispetto allo scopo (come allora i giolittiani) o all’ agire razionale rispetto ai valori (come all’epoca l’interventismo democratico).

Tuttavia all’epoca  giocarono un ruolo decisivo  il  pacifismo (allora socialista)  e  l’ ultrarealismo ( dei nazionalisti): alla fine  vinsero gli ultrarealisti, persero i pacifisti. Va però ricordato che le due correnti rappresentavano ( e rappresentano) un’ irrazionale volontà  di pace come di guerra, che subito dopo la fine del conflitto, seppellì le “ragioni razionali”  dei giolittiani come degli interventisti democratici.   

Come detto,  l’Occidente,  prima o  poi,  si ritroverà inevitabilmente  dinanzi allo stesso dilemma del 1915.  Dove sono oggi i   “realisti  razionali”?     

Di qui, la possibilità, di una nuova  pericolosa  sfida, senza alcun ponte,   tra pacifisti e ultrarealisti.  Segnata dall’alternativa, secca e  irrazionale,  tra guerra   o pace, senza condizioni.


Carlo Gambescia 

 

(*) Qui l'articolo di ieri:  https://cargambesciametapolitics.altervista.org/1915-1918-una-guerra-per-la-liberta/  


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