mercoledì 3 novembre 2021

Ibn Khaldūn, un Machiavelli nordafricano…

 

 

Il realismo politico (e sociologico)  deve  molto all’opera di Ibn Khaldūn, straordinaria figura di  Machiavelli nordafricano, vissuto un secolo prima del Segretario fiorentino, ma altrettanto acuto, seppure più timorato di dio. Un inciso, a sua volta, per par condicio storiografica, si potrebbe definire Machiavelli un Ibn Khaldūn italiano...


Ma veniamo al punto.  Che intendiamo dire con il termine realismo politico e sociologico? Un approccio che studia  la  realtà umana e sociale  per ciò che  è e non per ciò che deve essere.  

Per capirsi, ricordiamo due assiomi fondamentali, il primo  politico: dove c’è un nemico, là c’è la  politica, ergo prepararsi al conflitto, come pure alla cooperazione ma sempre in funzione del possibile conflitto; il secondo, sociologico:  le buone intenzioni non bastano, quindi va privilegiata l’etica della responsabilità rispetto a quella dei principi, perché  gli effetti perversi delle azioni sociali non perdonano.   

Per dirla in termini poco togati, la vita è dura. E bisogna prenderne atto. Senza sconti per nessuno. Quindi guai a utopisti e sognatori politici.

Non per niente due maestri del realismo politico del Novecento, come Julien Freund e Gaston Bouthoul, hanno dedicato pagine importanti a Ibn Khaldūn   e   alla sua  “Muqaddima”.  Siamo davanti, insomma,  come recita il titolo tradotto (“Prolegomeni”),  a  un’ introduzione di sopraffina  scienza politica e sociologica alla storia universale.  Di cui però si attende ancora, a centocinquant’anni circa dalla traduzione francese, la versione  in lingua italiana (sembra ora  in corso per i tipi di  Bompiani…).

Immagini quindi il lettore la nostra gioia di sociologi realisti  nel poter leggere, finalmente, una approfondita analisi del suo pensiero sociologico, “anche” attenta a questi aspetti.  Ci riferiamo  all’ottimo libro di  Annalisa Verza, professore associato di Sociologia e Filosofia del diritto  presso l’Università di Bologna: "Ibn Khaldūn. Le origini arabe della sociologia della civilizzazione e del potere" (*).

Il libro, che si dipana  in  cinque capitoli, armonici anche per numero di pagine  (più o meno una media di cinquanta per capitolo),   ha almeno quattro   piani di lettura.

Il primo,  rinvia alla storia della sociologia, alla grande e irrisolta questione dei suoi precursori e “inventori” (cap. I).  Di qui, la verifica di una serie di raccordi, di  anticipi e posticipi, tra Ibn Khaldūn e i  padri  del pensiero sociologico europeo. Ad esempio, la questione della asabiyya, concetto cardine khalduniano ( che può essere tradotto con “spirito di corpo”, “lealtà di gruppo”, come sottolinea l’autrice),  precede chiaramente il dibattito otto-novecentesco, sul rapporto tra  status e contratto,  ben ricostruito da Robert  Nisbet,  sui vari tipi di solidarietà sociale e politica (cap. II).  
Come del resto, altro fondamentale concetto  khalduniano, il conflitto tra società nomade e sedentaria, alla base dei processi di conquista, consolidamento, degenerazione e caduta  delle civiltà urbane (o marittime per dirla con Jacques Pirenne), rinvia al conflitto  tra comunità e società, altro cavallo di battaglia  di padri e classici della sociologia (capp. II e III). Tutti aspetti, puntualmente individuati da Annalisa Verza, che sembra privilegiare ma con cautela, la tesi dell’anticipatore (cfr. cap. I, par. 4.2).

Un secondo piano di lettura rimanda all’esegesi biografica e intellettuale dell’opera  khalduniana e alle stratificazioni interpretative (in particolare cap. I) che riflettono a specchio ( o quasi)  le mutevoli  concezioni politiche, culturali, sociali e religiose succedutesi nel tempo. Per così dire, un Ibn Khaldūn per tutte le stagioni. Fondamentalista per i fondamentalisti, ateo per gli atei, materialista per i materialista per i materialisti, illuminista per gli illuministi, eccetera, eccetera.

Lo studio delle genealogie di pensiero, pur essendo importantissimo dal punto di vista  della storia delle idee, rimanda al  “Così è (se vi pare)” di Luigi Pirandello. Fermo restando, in questo caso, la dotta e impeccabile rassegna interpretativa, portata a termine dall’autrice, con una  determinazione   degna del capitano Achab, senza  le stesse  manie suicide, ovviamente.

Un terzo piano di lettura riconduce a quella  che può essere  definita l’euristica della crisi ( cap. IV). E perciò a una serie di concetti, in qualche misura operativi, utilissimi per il ricercatore. Ci riferiamo, ad esempio, alla tematica delle generazioni e ai  successivi livelli di leadership:  dal “costruttore” (il conquistatore, la prima generazione)  al distruttore, (la quarta , il re fannullone),  passando per i gradi intermedi dell’esemplarità (il figli del costruttore, la seconda generazione) e del tradizionalismo pedissequo (i nipoti, la terza). Un tema, tra l’altro interessantissimo, che ha affascinato, ancora di  prima Mannheim e Sorokin   il nostro Giuseppe Ferrari, sociologo ante litteram, oggi misconosciuto. Tutti insieme ovviamente anticipati da Ibn Khaldūn.  

Il quarto e ultimo piano di lettura, è quello dell’attualità non solo politologica ma politica della “Muqaddima”. Qui, forse,  la parte meno convincente dell’ottimo studio  di Annalisa Verza. E per due ragioni.  Innanzitutto, l’approccio di Ibn Khaldūn, nonostante l’eccellente fisionomia realista,  resta olista:  il pensatore non è un individualista metodologico. Sotto questo aspetto, non comincia mai dall’individuo, quindi dalla parte, ma dal tutto, come prova l’uso sistematico e pregiudiziale  di un pur importante concetto come quello di asabiyya.  È vero che privilegia il conflitto. Però lo usa in chiave olistica  di  contrasto tra gruppi, istituzioni o blocchi di società (ad esempio nomadi contro sedentari).  Inoltre, sembra che tra i  quattro tipi di azione weberiani,   Ibn Khaldūn  sottovaluti l’agire razionale rispetto allo scopo. Il che,  proprio quando si occupa di economia,  e di tasse eccessive, come fattore di crisi e decadenza,  lo porta a ignorare la moderna tipologia degli investimenti in conto capitale, che rinvia alla libera impresa e ai processi di innovazione studiati da Schumpeter.

Del resto, però,  si parla di un pensatore vissuto nel XIV secolo, quindi  non può non essere così.  Sarebbe anacronistico imputargli l’assenza di una mentalità capitalistica. Diciamo che Ibn Khaldun è al di là di Keynes come di  Hayek. Da che  mondo è mondo  il fiscalismo è  all’origine della caduta di imperi e  stati: ma una cosa è il moderno welfare state  (Keynes) o  il libero mercato capitalistico (Hayek),  un’altra le economie dell’harem. Si ricordi, come narra gustosamente  Runciman, lo storico delle Crociate, lo stupore  dei  nobili  europei, appena arrivati a Gerusalemme,  a proposito dello stile, tipico delle economie dell’harem, imitato dai reucci crociati:  dello spreco per lo spreco, assai  lontano, da quella  mentalità   protocapitalistica che fece fare affari d’oro, con le Crociate, soprattutto le ultime, a Veneziani e Genovesi, alimentando gli sprechi dei principi  Crociati,  stanziali,  pigri  e arabizzanti.

Infine, il nodo dell’individualismo metodologico, in qualche misura, non consente a  Ibn Khaldūn di approfondire la questione degli effetti perversi delle azioni sociali. Ovviamente il pensatore non sottovaluta il ruolo dell’eterogenesi dei fini.  Si respira però  nelle sua opera un clima durkhemiano, o se si preferisce, più modernamente, struttural-funzionalista, di assoluta inevitabilità e pesantezza dei fenomeni sociali. All’istanza costruttivista, del valore guerriero della coesione di gruppo,  Ibn Khaldūn sembra affiancare certo determinismo  anti-individualista. In sintesi:  tutto ciò che è città, pur producendo ricchezza, è male, perché ha in sé i germi della inevitabile dissoluzione.  

Pertanto,  per tornare all’attualità di Ibn Khaldūn, quale ruolo potrebbe giocare il suo pensiero  in  una società come la  nostra  che celebra l’individuo e la città? Di ammonizione? Di non tirare troppo la corda?   Ma se la decadenza è nelle cose (di città), come sottrarsi alle cose (di città)?  Tornando al nomadismo guerriero?   Nelle sue conclusioni, diremmo con una ammirevole  abilità interpretativa,  Annalisa Verza, parla di una asabiyya, anzi “super asabiyya”, democratico-liberale, capace di ricompattare  il quadro politico dell’Occidente, ritornando alle nostre origini, che però - ecco il punto -  sono urbane. Quindi, inevitabilmente, sempre secondo Ibn Khaldūn, condannate a perire.  

Certo, resta  l’individuo, nulla è definitivo...  Però  se alla parte si privilegia il tutto, ci si preclude ogni possibile  di fuga.  Tutto diventa definitivo.

E qui   torniamo all’individualismo metodologico, e, politicamente parlando, al pensiero liberale, un pensiero “ di città”...  Si può essere khalduniani e liberali al tempo stesso?     


Carlo Gambescia
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(*) Annalisa Verza, "Ibn Khaldūn. Le origini arabe della sociologia della civilizzazione e del potere", Franco Angeli, Milano 2018, pp. 280, euro  34,50;  https://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?codicelibro=1525.55 .

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