giovedì 31 gennaio 2008

Il libro della settimana: Nicola Vacca, Ti ho dato tutte le stagioni, Manni 2007, pp. 48, euro 9,00. 


http://www.mannieditori.it/libro/ti-ho-dato-tutte-le-stagioni

Prima di tutto una confessione. L’amico poeta Nicola Vacca mi ha gradualmente ricondotto all’apprezzamento della poesia. Impresa ardua. Soprattutto quando ci si rivolga a un affamato lettore di saggistica, spesso per necessità, come chi scrive. E di questo gli sono grato.
Ora però devo parlare, e ovviamente non da critico, di questa sua ultima raccolta, Ti ho dato tutte le stagioni (Manni 2007). 
Come scrive Antonio Debenedetti nella prefazione, offrendoci una eccellente chiave interpretativa, “la lettura di queste poesie comporta l’accettazione di un’idea laica dell’inferno come solitudine, come separazione dall’altro. L’inferno è la perdita dell’altro. Si tratta di un assunto semplice nella sua terribilità e Vacca ne conosce tutta la portata” (p. 5).
Ecco si tratta di una poesia che parla dell’inferno del dolore, ma che al tempo stesso lo sfida. Quel dolore che si prova quando una persona cara scivola nella malattia. Ma al quale di deve pure reagire. E Nicola ne sa qualcosa: “Siamo la voce delle spade/che strappano i nostri corpi./ Sappiamo guardare il vero/dentro i tagli aperti./ Sapremo essere insieme/quello che ci toglie il dolore” (p. 34).
Ma che cos’è il dolore per il poeta? “Spine nelle tua carne” (p. 44). Dunque dolore fisico. Non solo: “Non hai torto quando/ dici che il dolore è/ l’errore fatale di Dio” (p. 46). Un dolore che perciò ha le sue ragioni metafisiche. Parleremmo, "quasi" come Nicola, di errore metafisico… Cosicché: “Alla fine non resta/ che ascoltare la liturgia/ dell’amore, il controcanto/ alla materia che saccheggia/ questa carne di cui siamo fatti”(p. 27). Un vita, insomma, che con l’occhio del sociologo, scopriamo ristretta tra materialità, amore, dolore, e “ silenzio di Dio/davanti alle nostre domande”(p.40).
Si dirà, “miscela classica”, molto neoromantica… E invece non è così. Perché in questa raccolta, come nell’ opera poetica di Nicola, c’è una autentica volontà di cognizione del dolore, che va oltre ogni traccia di compiaciuta lotta triadica tra carne, morte e diavolo. E che avvertiamo nella sua capacità di cogliere poeticamente il rapporto tra dolore e imprevedibilità, tra dolore e caso: “Spesso si cade sotto i colpi/ della vita. Mi dici sempre/ che non hai fatto niente di male/per avere questa lama nella carne./Il dolore arriva senza annunciarsi: nulla è come prima” (p. 31). Prendendo spunto da una celebre espressione della Arendt, si potrebbe parlare, seguendo la poesia di Nicola, di casualità del male, e dunque del dolore. Una casualità che travolge la nostra temporalità dell’ordinario sociale, spingendoci a entrare in un' altra dimensione temporale, all’inizio sconosciuta, segnata da un dolore, spesso assoluto, non voluto, e sentito come immeritato.
In ultima istanza, crediamo che il dolore per Nicola sia inspiegabile e insondabile. Con sullo sfondo l'immagine granitica di un Dio silente. Ma al tempo stesso capace, nonostante i suoi silenzi, di risvegliare, se all’amore che nasce dal dolore vogliamo pur attribuire un senso, la nostra povera umanità: “Non mi sono arreso/alle spine nella tua carne./La necessità di appartenerti/ ha avuto ragione del vento/ che annienta e dice” (p. 44).
Conoscere il dolore significa avere, al tempo stesso, cognizione della casualità del male, ma anche della causalità dell’amore, come “necessità di appartenere” all’Altro che si ama.
Nicola, comunque la si metta, non siamo mai completamente soli.

Carlo Gambescia

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