martedì 22 gennaio 2008

Abolire la borsa? 




Come è risaputo storia e funzioni della Borsa, le cui origini risalgono al Cinquecento (nel 1531 venne fondata la Borsa di Anversa), sono legate allo sviluppo del capitalismo. Ma a quanto pare in misura sempre più negativa e per alcuni addirittura parassitaria. Come del resto sembrano mostrare le cronache borsistiche di questi giorni
Un passo indietro. Sul piano della teoria economica la Borsa è da sempre presentata come uno strumento di finanziamento delle imprese e di investimento per i risparmiatori. Per contro sul piano della pratica ha sviluppato, fin dall’inizio, una crescente funzione speculativa, riflettendo scambi non sul valore reale delle imprese (la produzione e i profitti effettivi), ma speculazioni su valori congetturali e sempre più spesso irreali ( la produzione e i profitti futuri). A puro scopo di lucro e a danno dei risparmiatori. Soprattutto quando produzione e profitti futuri rispecchino valori irreali ma diffusi ad arte per influenzare il mercato in chiave rialzista o ribassista. Per così profittare, sulla base di scambi a termine, delle differenze tra valori puramente ipotizzati: in pratica immaginari (per rendersi conto di queste aberranti dinamiche si veda ad esempio il classico compendio di Shepard B. Clough e Richard T. Rapp, Storia economica d’Europa, Editori Riuniti 1980).
Se tuttavia fino alla grande crisi degli anni Trenta del Novecento, la Borsa aveva comunque svolto una funzione di finanziamento, con l’avvento del capitalismo manageriale e la conseguente distinzione tra proprietà azionaria e direzione strategica affidata ad amministratori delegati, l’aspetto speculativo è passato in primo piano. Alla fierezza dell’imprenditore e spesso unico azionista, di essere il “fondatore” di un impero economico da estendere e difendere, si è sostituita la necessità di appagare la crescente fame di profitti a breve (in genere borsistico-speculativi e nel lungo periodo autolesionistici per il "sistema"), da parte di quasi sempre anonimi gruppi di azionisti, per nulla fieri, se non del tutto estranei ai lati eroici ed imprenditoriali del capitalismo, celebrati da Schumpeter.
Hanno fatto il resto il progresso nelle comunicazioni e la crescente diminuzione dei controllo da parte dello stato-nazione di enormi masse fluttuanti di denaro. Accelerando, come  è sotto gli occhi di tutti, la micidiale frequenza di crisi borsistiche sempre più gravi. Che attenzione - ecco il punto fondamentale - sono di natura puramente speculativa. Ma che purtroppo a lungo andare non possono non influire sull’economia “reale”, producendo crisi “reali”, sempre più gravi. Giocando un effetto moltiplicatore su tutti gli altri fattori.
Ovviamente abbiamo semplificato un problema complesso. Ma solo per far comprendere ai lettori la necessità di una misura molto importante. Per farla breve: la Borsa andrebbe abolita. O comunque conservata "sotto vetro" solo per coloro che desiderassero continuare a giocare d’azzardo, con i titoli, come al Casinò. Sganciandola perciò da qualsiasi relazione con i valori reali dell’economia e delle singole imprese.
Si tratta di una ipotesi avanzata a suo tempo da studiosi non ostili al capitalismo come Federico Caffè e Argo Villella, ai quali rinviamo ( del primo si veda La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri 1990; del secondo, Quale capitalismo?, Liguori Editore 1997). Soprattutto per un approccio tecnico al problema. Dal momento che il “come” esula dalle nostre competenze.

Per concludere: abolire la Borsa? Sì. Anche perché è una misura che gli stessi difensori del “sistema” dovrebbero apprezzare. Sempre meglio l’abolizione della Borsa che la soppressione, magari per rivoluzione violenta, del capitalismo in quanto tale. O no?

Carlo Gambescia

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