venerdì 4 gennaio 2008

Aborto, moratorie e dintorni...




Antropologi, etnologi, sociologi e demografi sanno che le società possiedono alcuni criteri di autoregolazione demografica, come dire, in uscita e in entrata. La cui intensità di applicazione si rapporta ai costi storici e sociali di mantenimento di “nuove” e “vecchie” vite rispetto alla conservazione del gruppo. Di qui aborti, per prevenire l' eccessiva crescita demografica e/o l' eliminazione fisica dei soggetti deboli e socialmente "costosi", come gli anziani e i malati.
Sono criteri autoregolativi, che attraversano l’intera storia umana: dalle tribù di cacciatori, pescatori e raccoglitori, pronte a liberarsi di anziani e bambini, per non appesantire il bilancio economico del gruppo di appartenenza, alla Cina di oggi, dove non è permesso alle famiglie di procreare più di un figlio, fino alle attuali legislazioni sull’aborto e sull’eutanasia, più o meno permissive, secondo le diverse tradizioni culturali.
Pertanto, come risulta evidente, si tratta di modalità che rinviano a un nocciolo duro, utilitaristico, o se si preferisce materialistico, che esiste e persiste nelle “cose sociali”: la società, come capita agli animali feriti o malati, tende "in natura" a reagire per istinto di sopravvivenza, amputandosi la parte malata o infetta. E' una specie di deriva materialistica, verso la quale, tutte le società tendono ciclicamente a ritornare, soprattutto quando si indeboliscono o si dissolvono i criteri socioculturali (idealistici) di governo interno ed esterno dell'uomo e delle cose.
Nella tradizione occidentale il cristianesimo ha introdotto un criterio spirituale di eguaglianza tra gli uomini e di profondo rispetto per la vita. Si tratta di un criterio idealistico, che vieta all'uomo, in quanto Imago dei, di sopprimere qualunque altro essere umano per ragioni utilitaristiche. Di qui - almeno in linea di principio - il divieto di aborto e di eutanasia. Alla società, che si comporta come un animale ferito, il cristianesimo, impone di sopportare il “dolore”, anche a costo - sempre in via ipotetica - di provocare la sua dissoluzione.
A questi due criteri ( idealistico e materialistico, ma come detto il materialismo è nelle "cose sociali"), se ne è aggiunto negli ultimi secoli un terzo di derivazione illuminista e con profonde radici nell’ individualismo moderno. Si tratta di un criterio al tempo stesso materialistico e idealistico. Nel senso che per un verso tiene conto del bilancio demografico del gruppo sociale, e per l’altro "idealizza" l’individuo e in particolare i suoi diritti soggettivi, tra i quali ammette - semplificando - quello di darsi liberamente morte. Ma anche quello di "dover" godere, materialmente, di una vita libera e felice. E dunque di decidere, nel caso, quanti figli mettere al mondo. E soprattutto delle loro condizioni di salute: dal momento, che una volta al messi mondo, i figli se malati, potrebbero essere di intralcio alla ricerca individuale di felicità, per ogni membro della famiglia e per la stessa prole "malata".
Risulta perciò chiaro come fra le due tradizioni (chiamiamole pure così), quella cristiana idealistica e quella illuministica (materialistica-idealistica), non vi sia ponte: i punti di contatto sono praticamente inesistenti. Dal momento che per la tradizione cristiana l’idealismo è dato dall’uomo immagine di Dio, mentre in quella illuminista, dall’Uomo immagine dell’Uomo. Pertanto l’ "idealismo" illuminista, resta segnato da una forte curvatura materialistica, in quanto "idealizza" una realtà che è di questo mondo e non dell’altro.
Non può perciò non essere evidente come le discussioni di questi giorni intorno alla “Grande Moratoria dell’aborto”, siano destinate a sottolineare soprattutto le differenze fra le due tradizioni. E dunque a non approdare, vista la distanza tra le due concezioni, a pur auspicabili soluzioni di compromesso.
Va però detto che la tradizione idealistica, non poggiando su criteri utilitaristici (l’interesse dell’individuo e della società), presenta meno rischi involutivi di quella materialistica-idealistica, fondata comunque sull’autoconservazione fisica della società. E dunque passibile del progressivo scivolamento verso comportamenti da materialistica società di cacciatori, pescatori e raccoglitori, sbrigativamente attenta solo al proprio bilancio economico e demografico.
Tuttavia c’è chi crede che in una società pronta a celebrare i diritti dell’uomo, come la nostra, un’involuzione del genere sia praticamente impossibile. Ma perché escludere la possibilità, che una volta accettato il criterio utilitaristico-materialistico, non possa prevalere l’interesse della società a conservarsi su quello dell’ individuo a condurre una vita felice?  
Purtroppo, di regola, quando sono in gioco gli interessi materiali c’è sempre il rischio che a soccombere siano gli interessi meno capaci di coalizzarsi. E nel caso quelli di individui resi di fatto sempre meno responsabili, e soprattutto disposti a tutto pur di non rinunciare alla propria “fetta”, grande o piccola, di felicità materiale.
Finché si resta giovani, s’intende. 

Carlo Gambescia

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