lunedì 28 gennaio 2008

Che cosa resta 

del Sessantotto italiano? 


Procediamo per gradi.
Innanzi tutto si deve distinguere tra un Sessantotto culturale e un Sessantotto economico e sociale. Ora, l’eredità del Sessantotto culturale, già all’epoca segnato da un forte radicalismo di tipo individualistico, è oggi presente in quella cultura dei diritti civili, da molti presentata, e in particolare da certa sinistra liberal, come unica forma di democrazia politica. E coagulatasi in alcune leggi di contenuto civile, nel merito delle quali qui non desideriamo entrare, per non perdere il filo generale del nostro discorso. Mentre del Sessantotto economico e sociale, le cui premesse erano decisamente rivoluzionarie, non è praticamente restato nulla, a parte uno Statuto dei Lavoratori, oggi messo in discussione, perfino dagli stessi sindacati.
Il lato interessante della questione è rappresentato dalla apparente (come poi vedremo) frattura, appunto in termini di eredità, tra il Sessantotto politico e il Sessantotto economico-sociale. Perché la “rivoluzione” sì è fermata a metà? Influenzando il diritto civile, ma lasciando inalterate le strutture economiche e sociali? Per due ragioni.
In primo luogo, perché è mancata una spinta propulsiva e rivoluzionaria dal basso (con l'individualismo culturale, difficilmente si formano quadri rivoluzionari, a prescindere dalla forza o meno delle strutture a cui ci si vuole opporre…). Ma è anche mancata, da parte dei partiti politici di sinistra, la concreta volontà riformista di “tradurre” in leggi i contenuti economici e sociali del Sessantotto
In secondo luogo, e qui la responsabilità è ancora della sinistra partitica, perché si è accettato a livello legislativo uno scambio tra diritti civili e diritti economici e sociali. In certo senso, se ci si passa l’espressione, la sinistra si è gradualmente convertita a un radicale individualismo neoborghese. Fino al punto, almeno in alcune sue attuali componenti, di accettare la visione individualistico-libertaria, anche in campo economico e sociale, presentando il neoliberismo, come una politica di sinistra. Il che, in fondo, era ed è scontato. Dal momento che il liberismo economico, di regola, è lo sbocco naturale, diciamo così, del liberismo civile: una volta che si accetta l’uno, si finisce per accettare anche l’altro. E oggi i “prodotti” più genuini di questo processo sono Walter Veltroni e la cultura, anche economico-sociale, che ruota intorno al segretario del Pd, sopratutto a livello di un immaginario collettivo in linea con il mainstream neoliberista.
Credamo perciò che la sinistra debba cominciare a riflettere sul vero significato del suo scambio, neppure così occulto, con il potere costituito: diritti civili (che al potere economico non costano niente) per diritti economici e sociali (che invece costano molto).
Questo scambio a perdere (per la sinistra) ha provocato due conseguenze.
In primo luogo, si parla sempre più di diritti civili e sempre meno di diritti economici e sociali, anche all'interno della cosiddetta "sinistra radicale". Dal momento che, come spesso dichiarano politici di sinistra (anche insospettabili), la soluzione dei problemi economici e sociali non può non prescindere (o comunque non fare i conti) dalla "mano invisibile del mercato". In secondo luogo, questo “bagno collettivo” di individualismo culturale, iniziato nel Sessantotto, ha provocato a livello collettivo, anche all’interno dell’elettorato di sinistra, l’adesione a una cultura di tipo soggettivistico, dove la democrazia è intesa "teoricamente" come promozione della libertà del singolo, ma di "fatto" come libertà economica di "consumare" merci. E non come crescita delle libertà collettive dal bisogno. Certa sinistra "riformista" è perfino giunta al punto di criticare la stessa legislazione del welfare state perché di ostacolo allo sviluppo del mercato, e dunque dei consumi privati. E su questo terreno certo veltronismo finisce per "sposarsi" con il berlusconismo, dando vita a quel fenomeno che in altri post abbiamo definito veltrusconismo, e ai quali rinviamo.
In conclusione, quel che resta del Sessantotto italiano, è un fuorviante radicalismo dei diritti, ormai pienamente estesosi, indossando la veste del neoliberismo rampante, che resta  altra cosa rispetto al liberalismo politico,  anche al campo economico e sociale.
Alcuni lettori potrebbero chiedersi perché non tornare indietro idealmente, e riannodare oggi il Sessantotto culturale a quello economico e sociale. Impossibile. Perché per fare un’operazione del genere, si dovrebbe puntare su una cultura comunitaria dei doveri collettivi. Cultura che implica il riconoscimento di un senso del dovere del singolo verso la comunità tutta. Quanto di più estraneo a una cultura come quella del Sessantotto, impregnata di radicalismo individualistico.
Semplificando, forse troppo per alcuni, si può dire che la sinistra potrà uscire dal vicolo cieco in cui è finita, solo dopo che avrà riscoperti culturalmente il valore della comunità e il significato politico dei doveri collettivi ( e non solo dei diritti individuali). E in questo farsi un poco destra (ovviamente non quella oggi su piazza...).

Carlo Gambescia 

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