Ieri in privato un amico mi diceva che invento paroloni — come questo di “democrazia emotiva” — rischiando di accrescere la confusione. Eccetera, eccetera.
Ora, a parte il fatto che il termine non è mio ma di Theodor Geiger (*), resto convinto che il concetto di democrazia emotiva sia non solo legittimo, ma indispensabile per capire il vicolo cieco in cui ci siamo infilati.
Conviene subito partire da una definizione.
Per democrazia emotiva si intende una forma di funzionamento della politica in cui il consenso non viene costruito attraverso programmi, mediazioni o risultati verificabili, ma mediante l’attivazione continua di emozioni primarie: paura, rabbia, risentimento, senso di assedio.
Non è ancora la fine della liberal-democrazia, ma una sua trasformazione patologica. Un tempo la si sarebbe chiamata demagogia, demagogia di sapore autoritario. Oggi, però, la demagogia dispone di una potenza di fuoco incomparabilmente maggiore: la società di massa iperconnessa e il ruolo, spesso devastante, dei social media non tradizionali.
Le procedure restano. Le elezioni si tengono, i parlamenti votano. Ma il motore non è più il confronto razionale: è la reazione emotiva immediata. Specialità in cui questa destra — dalle evidenti radici post-fasciste se non fasciste — eccelle, seguita da una sinistra che, quanto a populismo emotivo, non è sempre stata da meno.
Dentro questo quadro accadono alcune cose abbastanza regolari: 1) la complessità diventa sospetta; 2) il diritto appare come un intralcio; 3) i giudici come sabotatori della volontà popolare; 4) le minoranze come corpi estranei.
La politica smette di governare i conflitti e inizia a eccitarli.
A questo punto veniamo all’ esempio concreto, quasi didattico, di come funziona la democrazia emotiva: il caso dell’imam di Torino.
La vicenda è esemplare proprio perché non è estrema, ma ordinaria. Un
imam pronuncia frasi discutibili, politicamente urticanti,
ideologicamente non accettabili per molti (**). Cose che possono — e
devono — essere criticate sul piano pubblico.
E invece cosa accade?
Il governo reagisce non sul piano penale, ma su quello amministrativo: decreto di espulsione, CPR, trattenimento. Ed è qui che si manifesta la cesura decisiva, dal punto di vista dei risultati e delle conseguenze, tra una democrazia che funziona e una democrazia emotiva, tra uno stato di diritto e una stato di polizia.
Un passo indietro. La giustizia penale punisce fatti, al termine di un processo, con garanzie piene. La giustizia amministrativa, invece, gestisce status, permessi, sicurezza preventiva. È legittima, ma strutturalmente pericolosa, perché più rapida, più opaca e meno garantita. Proprio per questo dovrebbe essere usata con estrema cautela.
Nel caso specifico, l’amministrativo è stato forzato: si è tentato di trasformare un’opinione — per quanto sgradevole — in una minaccia alla sicurezza, senza dimostrarne la concretezza.
I giudici sono intervenuti non per “difendere l’imam”, ma per difendere un principio elementare: non si può privare una persona della libertà solo perché dice cose che non piacciono al potere politico.
Ripetiamo: questo si chiama Stato di diritto. Ed è, per definizione, antipatico a chi governa sull’emozione.
Altrettanto esemplari sono state le reazioni di esponenti di primo piano del governo — a partire da Giorgia Meloni — alla liberazione dell’imam. Il messaggio implicito non è stato “rispettiamo le decisioni della magistratura”, ma un altro: “i giudici ostacolano la sicurezza”. Sui giornali organici alla destra meglio stendere un velo pietoso.
È una retorica pericolosa, perché delegittima il controllo giurisdizionale, rafforza l’idea che la legalità sia un lusso e alimenta un clima di sospetto etnico e religioso.
Ma il passaggio decisivo viene subito dopo. Nel dibattito pubblico, soprattutto nell’area della destra, il caso torinese viene fatto scivolare dentro una cornice emotiva più ampia: quanto accaduto a Sydney contro la comunità ebraica. Non attraverso un nesso esplicito, ma per accostamento intuitivo. Un fatto qui, un massacro là. Un imam che parla, un attentato che uccide.
È così che funziona la democrazia emotiva: non dimostra, associa; non argomenta, connette; non distingue, condensa.
L’imam di Torino smette di essere un individuo con parole discutibili e diventa un frammento di una minaccia globale indistinta. Islam, antisemitismo, terrorismo, immigrazione: tutto viene fuso in un’unica immagine di pericolo. Il contesto giuridico evapora, quello simbolico esplode.
La democrazia emotiva ci mostra il rischio di reagire senza misura: aggirando il diritto o creando nemici simbolici.
Va qui fatta una precisazione. Difendere la liberal-democrazia dagli intolleranti, diciamo di fatto, non può essere visto come un errore o una contraddizione dal momento che con i violenti – e non a parole – non possiamo permetterci la stessa tolleranza che concediamo ai cittadini rispettosi della legge.
Quando l’intolleranza diventa azione, minaccia o violenza, il permissivismo non è virtù: è cedimento.
Il rischio reale non è il dissenso, ma di favorire chi vuole distruggere le regole fondamentali dello stato liberale. Ignorare questa distinzione significa lasciare spazio all’arbitrio, all’uso strumentale della paura, all’erosione della democrazia.
In questo senso, il permissivismo verso chi minaccia la libertà altrui, sparando nel mucchio, è ciò che rischia davvero di affondare l’Occidente. Dopo di che, non si può non osservare che, al momento, un evento criminale reale e tragico, avvenuto dall’altra parte del mondo, diventa la giustificazione emotiva retroattiva di una forzatura amministrativa compiuta in Italia. Non importa che non vi sia alcun legame fattuale. Importa che la paura sembri finalmente coerente.
Qui la democrazia emotiva mostra il suo volto più efficace e più tossico: la costruzione di un nemico simbolico su cui far convergere ansie e frustrazioni che hanno tutt’altra origine. L’insicurezza sociale percepita e la conseguente crisi di fiducia vengono tradotte in una questione identitaria. Più semplice. Più vendibile. Più fruibile.
Sarebbe però troppo comodo dire che il passaggio verso una politica apertamente razzista e ostile allo stato di diritto sia automatico. Non lo è. Ma è vero che, una volta accettato questo schema emotivo, la distanza si accorcia drasticamente. Perché se il diritto è percepito come un intralcio, il giudice come un sabotatore e la garanzia come una debolezza, allora ogni limite diventa negoziabile.
Spesso si dice: “In Europa sono più duri”. È vero solo a metà.
In Germania le garanzie giuridiche sono fortissime e il controllo giudiziario è invasivo; l’espulsione non è un gesto simbolico, ma l’esito di dossier solidi. In Francia le espulsioni sono più frequenti, ma accompagnate da una forte professionalizzazione dell’apparato e da una minore teatralizzazione politica. In Italia, invece, prevale l’annuncio sull’esecuzione, la visibilità sulla sostanza, il CPR come palcoscenico. Il punto, allora, non è che siamo più deboli. È che siamo più emotivi.
Ed evocare con la bava alla bocca il mantra dell' “Islam contro Occidente” o della “Sicurezza contro Buonismo” serve solo a nascondere il vero conflitto: quello tra una politica che governa attraverso la reazione emotiva e un diritto che insiste a funzionare come limite.
La democrazia emotiva non abolisce le regole: le conserva, ma le svuota. Non sospende lo Stato di diritto: lo aggira, lo scredita, lo rende sospetto. E lo fa senza colpi di Stato, ma con il consenso di chi, spaventato, chiede solo che qualcuno “faccia qualcosa”.
È questo il vicolo cieco in cui ci troviamo: una democrazia che reagisce sempre più in fretta e pensa sempre meno. E che rischia di scoprire troppo tardi che ciò che ha sacrificato non era un eccesso di garantismo, ma l’unico argine rimasto tra il potere e l’arbitrio.
Forse il mio amico ha ragione: democrazia emotiva è un parolone. Ma il problema non è inventare parole nuove. Il problema è che la realtà che descrivono è già qui e funziona benissimo anche senza che la si chiami per nome.
Carlo Gambescia
(*) Theodor Geiger, Democrazia senza dogmi. La società tra sentimento e ragione, in Id., Saggi sulla società industriale, a cura di Paolo Farneti, Utet, 1970, pp. 281–624. Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/quando-il-rancore-diventa-consenso-da.html . E qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2019/07/la-lezione-di-theodor-geiger-democrazia.html .
(**) Qui le sue dichiarazioni, giudichi il lettore: https://torino.corriere.it/notizie/cronaca/25_dicembre_02/imam-di-torino-espulso-la-procura-aveva-gia-archiviato-la-frase-interpretata-come-sostegno-ad-hamas-8a786ba4-302b-4046-96bc-ef463d190xlk_amp.shtml?utm_source=chatgpt.com .


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