Che in alcuni uomini e in alcuni gruppi esista una volontà di potenza è un dato elementare. Né è assurdo sostenere che tale volontà rinvii anche a strutture materiali, soprattutto economiche.
Il problema nasce quando questa constatazione descrittiva viene trasformata in una giustificazione normativa. È qui che entra in scena la geopolitica, non come strumento di analisi, ma come linguaggio di legittimazione. Ed è qui che emerge il suo tratto più caratteristico e meno confessabile: il ridicolo.
Il ridicolo della geopolitica non sta nella violenza in sé, ma nella pretesa di razionalità con cui la violenza viene rivestita. Sicurezza e autonomia (semplificando) vengono invocate come fini supremi, quasi naturali, mentre le scelte adottate per garantirle producono sistematicamente l’effetto opposto. In nome della sicurezza si genera insicurezza strutturale; in nome dell’autonomia si moltiplicano dipendenze. Ciò che dovrebbe essere mezzo diventa fine, e il fine si dissolve. La geopolitica, nata come strumento, finisce per autolegittimarsi come scopo ultimo. Quando accade questo rovesciamento, la razionalità si spegne come una lampadina fulminata.
L’aggressione russa all’Ucraina è un esempio quasi didattico di tale dinamica. Giustificata come necessaria per la sicurezza e l’autonomia della Russia, ha spinto la NATO a rafforzarsi, isolato ( o quasi) Mosca, indebolito la sua economia, logorato il suo apparato militare. Se questo è realismo, è un realismo maldestro, da copione mal scritto. Un realismo criminogeno, che gode nel male che procura agli altri, ma dalle tendenze autodistruttive (*). Classico effetto inintenzionale delle azioni sociali.
La geopolitica promette controllo e produce reazioni a catena che sfuggono a ogni controllo. Il risultato, non previsto, non è tragico nel senso classico del termine: è tragicomico, perché milioni di morti diventano il prezzo di argomentazioni che, a posteriori, appaiono goffe.
Diverso è il caso della reazione ucraina. Qui la geopolitica entra in gioco solo per “trascinamento”. Non c’è una volontà di potenza, ma una volontà di sopravvivenza. L’Ucraina non combatte per ridisegnare equilibri globali, ma per non essere cancellata come comunità politica. Mettere sullo stesso piano aggressione e difesa è uno dei trucchi più tipici del discorso geopolitico: serve a mascherare l’asimmetria causale dietro un lessico apparentemente neutro.
La storia moderna è costellata di esempi simili. Mussolini parlò di spazio, prestigio, sicurezza imperiale e ottenne il collasso dello Stato. Hitler, e nei suoi anni la geopolitica, venne trasformata dagli sgherri intellettuali del regime, in scienza esatta, portò la volontà di potenza a coerenza ideologica totale — sicurezza, autarchia, spazio vitale — producendo la distruzione della Germania e dell’Europa. Guglielmo II, con la sua Weltpolitik, contribuì a rendere la guerra generale probabile; Nicola II vi entrò per difendere onore e sicurezza, perdendo entrambi e l’Impero; Napoleone III, perdendolo, precipitò il Secondo Impero in una guerra “necessaria”; Napoleone I costruì un ordine europeo fondato sulla forza e si trovò di fronte a una invincibile coalizione universale. La volontà di potenza, reiterata, non genera stabilità: genera nemici.
È utile chiarire cosa resta fuori. Le grandi conquiste delle dinastie mongole non sono geopolitica, ma conquista premoderna. Perciò anche la Cina, contrariamente a una certa vulgata allarmistica, non ha conosciuto una tradizione continuativa di volontà di potenza in senso geopolitico. Al netto delle parentesi delle dinastie mongole e del comunismo novecentesco, la sua proiezione storica è stata prevalentemente interna e imperiale, non espansiva. L’attuale dirigenza sembra aver scelto la geoeconomia come linguaggio del potere. Resta aperta una sola domanda, tutt’altro che oziosa: fino a quando?
La geopolitica, prodotto tipicamente moderno, nasce quando la volontà di potenza si traveste da linguaggio tecnico e pretende di essere razionale. Peccato che questo aspetto sia sfuggito a Heidegger, nemico giurato della tecnica ma propagandista filosofico del nazionalsocialismo. Quando si dice il caso…
Va ammesso che il cinema ha ben fotografato il fenomeno. Si pensi al “Dottor Stranamore” di Kubrick e ai suoi generali caricaturali. La geopolitica appare per ciò che è: una messinscena grottesca in cui uomini convinti di dominare il mondo sono in realtà prigionieri delle proprie mappe. Il potere che perde il senso del ridicolo diventa cieco. E quando il potere è cieco, diventa pericoloso.
Figure come Donald Trump rendono questa dinamica ancora più evidente. Non perché inaugurino una nuova geopolitica, ma perché ne mostrano il lato farsesco senza mediazioni. L’ossessione per i rapporti di forza, i confini, i dazi, unita al disprezzo per le conseguenze sistemiche, porta alla luce ciò che di solito resta nascosto sotto un linguaggio solenne. Trump non è un’anomalia: è la geopolitica senza trucco. Ed è proprio per questo che è pericoloso.
Il confronto con la geoeconomia chiarisce ulteriormente il punto. La geoeconomia rinvia al mercato, allo scambio, ai contratti, alle interdipendenze. Capitalismo e liberalismo, che ne sono il motore storico, non eliminano il conflitto, ma lo regolano; non promettono sicurezza assoluta, ma riducono la distruttività. Accettano il limite. La geopolitica, invece, assolutizza il mezzo militare e lo trasforma in fine, finendo per distruggere le stesse condizioni della sicurezza che dichiara di perseguire.
Ecco perché la geopolitica è ridicola in senso strutturale. Non perché sbagli sempre, ma perché sbaglia sempre allo stesso modo. Distrugge ciò che dice di difendere, confonde l’aggressività con la lungimiranza, scambia la volontà di potenza di pochi per destino collettivo. Non è una scienza della necessità storica, ma una razionalizzazione ex post di decisioni già prese. Parliamo di una precisa regolarità metapolitica (**).
Il che spiega perché ci si deve opporre alla Russia: non per moralismo astratto o pacifismo d’accatto, né per aderire a una geopolitica concorrente, ma perché l’aggressione russa rappresenta una perdita totale del senso del ridicolo.
E come detto quando il potere smarrisce il senso del ridicolo diventa davvero pericoloso. Opporvisi non significa alimentare il conflitto, ma tentare di evitarne l’esito peggiore, che è quasi sempre lo stesso: una tragedia reale giustificata da argomentazioni tragicomiche.
In definitiva, la geopolitica è l’arte di trasformare mezzi
distruttivi in fini apparentemente nobili e di chiamare realismo ciò
che, a conti fatti, è solo una forma particolarmente costosa di
criminogena miopia organizzata.
Carlo Gambescia
(*) Sul punto rinviamo al nostro Il Grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio, 2019.
(**) Sulle “regolarità” si veda il nostro Trattato di Metapolitica, vol. I, Storia, concetti e metodo, Edizioni Il Foglio, 2023, 2 voll.





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