Invitiamo il lettore a riflettere su un paradosso curioso e inquietante. Quale? Nell’Italia di oggi criticare il potere non significa più essere liquidati come “di sinistra”, ma comporta il rischio molto più grave di essere marchiati come antifascisti. E ovviamente non in senso positivo ma come insulto, come stigma, come sospetto politico.
Il che è già singolare di suo. Però diventa preoccupante quando in mezzo c’è un giornale. L’assalto alla sede della “Stampa” avrebbe dovuto evocare, in modo naturale, un parallelo storico chiaro e netto: quello con le spedizioni punitive contro le redazioni dei giornali durante il primo squadrismo.
Allora c’era Mussolini che ordinava, oggi non c’è più Mussolini, ma la dinamica è quella. Aggiungiamo pure che dal 1945 in poi, in Italia non si sono più registrati attacchi collettivi ai giornali in stile “Avanti” 1919.
Certo, giornalisti sono stati uccisi, feriti, bombe sono esplose, però nessuna spedizione punitiva: nessuna azione collettiva di “stampo” fascista.
E invece no. Quel parallelo non lo fa quasi nessuno. Si preferisce parlare d’altro.
E l’altro, questa volta, si chiama Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’ONU per i diritti umani nei territori palestinesi. Una figura, dunque, esterna alla politica italiana. Però, da qualche tempo, basta che che apra bocca — ovviamente quasi sempre in modo discutibile, discutibilissimo, ma il punto non è questo — perché scatti la caccia all’etichetta: Propal, Amica degli islamici, di Hamas, eccetera, eccetera.
E dopo l’assalto alla “Stampa” cosa ha detto? Che quanto accaduto va condannato, ma che deve servire di monito per quei giornalisti che ignorano il pluralismo informativo. Apriti cielo.
Pertanto critichiamo pure Francesca Albanese quando dice sciocchezze. Però ricordiamo pure che capita qualcosa di strano: che mentre la si crocifigge per il suo presunto “filo-islamismo”, sparisce completamente la dimensione centrale dell’episodio. Che un gruppo organizzato ha assaltato la sede di un giornale, fisicamente e simbolicamente. Attenzione, anche “sim-bo-li-ca-men-te. Cioè al di là dei danni effettivi.
Ed è proprio qui che emerge il cuore del problema.
L’anti-islamismo, nell’Italia politica di oggi, funziona come una scorciatoia retorica. Detto alla buona: specchietto per le allodole. Permette di spostare il discorso su un nemico culturale esterno (“i ProPal, gli islamici, gli infiltrati) e di evitare la parola che davvero brucia: fascismo.
Perché dire che un azione punitiva contro un giornale richiama lo squadrismo significa costringere la destra di governo a fare i conti con il suo passato compromettente. Per farla breve: guardare la storia in faccia.
Significa scalfire quella fragile cornice identitaria per cui la destra è “sì democratica”, purché nessuno si azzardi mai a evocare le radici storiche da cui proviene.
E allora la scena si rovescia: chi usa la parola antifascismo diventa automaticamente sospetto; chi liquida tutto come teppismo ProPal o infiltrazione islamica appare più rassicurante, più allineato, più accettabile.
Insomma, si preferisce parlare di islamici e crocifiggere Francesca Albanese, sparando nel mucchio (Greta, i lunatici di Pd, eccetera, eccetera), pur di non tirare in ballo i fascisti.
Quando si dice che il governo Meloni è democratico, bisognerebbe aggiungere una postilla: democratico entro il perimetro retorico che esso stesso accetta.
E in quel perimetro la parola “fascismo” non deve entrare. Non deve essere evocata, nemmeno quando la dinamica degli eventi la richiama in modo quasi didascalico. Come una spedizione punitiva contro un giornale, cosa che non accadeva in Italia, dagli anni del fascismo.
Detto altrimenti ci troviamo nel mezzo di una auto-censura morbida che pervade giornali, talk show, opinionisti e addirittura i social. Non la impone nessuno, ma tutti la praticano.
Si teme di essere marchiati “antifascisti”. Termine che oggi, paradossalmente, è diventato un insulto, un’accusa, o comunque un cosa passata di moda. Ci si sente ripondere: “Ancora con questa solfa?” oppure “Ma io non ero nato”, “Roba di cento anni fa”. E così via.
Tre anni fa sembrava impossibile. Oggi è un dato di fatto. Insomma, al di à delle scelte di governo, pur discutibili, questo rovesciamento dei valori la dice lunga sui rischi che corre la nostra libertà. Il lato tragicomico è che Fratelli d’Italia, per bocca dei suoi esponenti, non perde occasione per evocare la censura Woke. E atteggiarsi a martire. Ridicolo. Eppure funziona. C’è chi ancora crede all’accerchiamento.
Va anche ricordato un altro punto fondamentale: la destra di governo non ha mai avuto un rapporto sereno con i grandi gruppi editoriali, soprattutto quelli della galassia Elkann.
Giorgia Meloni, più volte negli ultimi anni, ha attaccato direttamente John Elkann: accusandolo di aver spostato l’italianità della Fiat altrove; contestando il mancato rispetto verso il Parlamento per la sua assenza nelle audizioni; leggendo le critiche dei suoi giornali come parte di una ostilità politica strutturale.
Non che questo renda l’assalto meno grave, ci mancherebbe altro. Ma perché aiuta a capire il clima: quando un governo considera alcuni giornali come avversari politici, l’aria si appesantisce. E un assalto fisico, in questo clima, diventa ancora più preoccupante: non perché sia voluto, ma perché trova un discorso pubblico già pronto a non vedere.
La domanda è semplice, e proprio per questo nessuno la fa. A dire il vero tace anche lo stesso Elkan, stando almeno ai suoi interventi pubblici dopo l’assalto. Del resto sembra che da ottobre “La Stampa” sia passata di mano. E prossimamente toccherà a “La Repubblica”. La destra può vincere facile.
Per quale ragione in Italia, anno di grazia 2025, è più facile parlare male degli islamici che del fascismo? Perché evocare un nemico esterno è comodo, mentre evocare un’eredità interna è pericoloso. So badi bene: il fascismo non è solo una memoria, è una responsabilità. E la responsabilità, si sa, pesa.
Un assalto a un giornale non è un episodio isolato. È sempre un segnale.
E se non si ha più il coraggio di chiamarlo con il suo nome — se la parola “fascismo” viene bandita e la parola “antifascismo” derisa — allora la democrazia non è più un fatto: è una scenografia.
E il problema non è Francesca Albanese, né l’ONU, né i ProPal. Il problema è che l’Italia preferisce la scorciatoia identitaria del nemico esterno alla fatica civile della memoria interna.
Quando l’antifascismo diventa un insulto, il fascismo non ritorna: esce dall’ombra.
Carlo Gambescia






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