Purtroppo sembra prevalere l’idea che la cultura di matrice o derivazione fascista sia un’opinione come un’altra.
In realtà non è così. La distinzione tra cultura militante e vera cultura è oggi più necessaria che mai, proprio perché viene sistematicamente oscurata. Si pensi alle polemiche in fondo inutili su Passaggio al Bosco. Inutili, ovviamente in un paese “normale”. Nel quale è cosa scontata non assegnare patenti di normalità al nazionalsocialismo.
Queste due forme di cultura, come detto, vengono invece presentate come equivalenti, quando non addirittura confuse per scelta strategica. Ma non lo sono affatto.
Partiamo allora dalle definizioni.
La cultura militante nasce da una presa di posizione ideologica preliminare. Parte da una conclusione già data e costruisce, in modo selettivo, un apparato concettuale che la giustifichi. Il suo obiettivo non è comprendere la realtà, ma orientarla; non è interrogare i fatti, ma usarli. È una cultura funzionale: semplifica, omette, enfatizza ciò che serve e rimuove ciò che disturba. Può essere colta, raffinata, persino brillante, ma resta subordinata a una causa. Il dubbio, quando compare, è puramente ornamentale.
La vera cultura, al contrario, non parte da una verità già decisa. Non si mette al servizio di un progetto politico, semmai lo sottopone a verifica. Non promette certezze, ma espone a rischi intellettuali. Accetta la complessità, tollera l’ambiguità, sopporta l’incoerenza dei fatti rispetto alle teorie. È per sua natura antidogmatica e per questo spesso scomoda. Non mobilita, non rassicura, non fidelizza: problematizza.
La differenza fondamentale è semplice: la cultura militante chiude il discorso; la vera cultura lo apre, anche quando il risultato è disturbante.
Un esempio attuale di cultura militante è offerto da una parte della destra italiana oggi al governo, in particolare quella riconducibile a Giorgia Meloni, le cui radici storiche e simboliche affondano nel filone post-fascista. Qui la cultura non serve a fare davvero i conti con il fascismo come esperienza storica concreta, ma a renderlo presentabile: depurato, normalizzato, ricollocato entro una retorica identitaria controllata.
Il lavoro più esplicito di riscrittura e sdoganamento è delegato all’area culturale ed editoriale di riferimento, mentre il partito mantiene una posizione ambigua, fatta di omissioni, recuperi selettivi e continui rimescolamenti delle carte (*).
Si citano autori, si evocano tradizioni, si parla di popolo, nazione e sovranità entro un perimetro rigidamente sorvegliato, da cui è escluso tutto ciò che potrebbe mettere in discussione la legittimità dell’impianto ideologico. È cultura militante allo stato puro: selettiva, apologetica, orientata alla legittimazione, ma praticata per delega e protetta dall’ambiguità.
Accanto a questo esempio negativo, è però essenziale indicare un esempio positivo di vera cultura: il liberalismo.
Non il liberalismo ridotto a etichetta di partito o a programma contingente, ma il liberalismo come orizzonte culturale. Come ricordava Benedetto Croce, esso è una sorta di prepartito: non una dottrina chiusa, ma una cornice di civiltà che rende possibile la convivenza di posizioni diverse. Non un’ideologia tra le altre, ma la condizione che consente alle ideologie di confrontarsi senza annientarsi.
Proprio per questo, il liberalismo non include tutto indiscriminatamente. Al contrario, esclude automaticamente chi nega i suoi presupposti fondamentali: il pluralismo, la limitazione del potere, lo Stato di diritto, la libertà individuale. Fascismo, nazionalsocialismo, comunismo totalitario e, più in generale, tutte le forme di autoritarismo non sono “opinioni alternative”, ma negazioni di questo orizzonte. Non vengono esclusi per intolleranza, ma per incompatibilità logica e storica.
Qui la vera cultura mostra il suo lato normativo senza trasformarsi in militanza ideologica. Non neutralizza i conflitti, ma ne stabilisce i confini. Ed è qui che torna decisiva la lezione di Karl Popper: una società aperta non può permettersi una tolleranza illimitata. Chi utilizza le libertà democratiche per distruggere la democrazia non può invocare il pluralismo come scudo. Negargli spazio e legittimazione non è censura, ma autodifesa razionale dell’ordine liberale.
In questo senso, il liberalismo è l’esempio più chiaro di vera cultura: non mobilita le masse, non fornisce slogan, non promette redenzioni collettive. Fornisce regole, limiti, procedure. E soprattutto difende la libertà anche contro chi la usa per negarla.
In conclusione: la cultura militante serve una causa; la vera cultura serve la comprensione e la libertà che la rende possibile.
Quando certe idee si rivelano incompatibili con la democrazia liberale, la vera cultura non media, non relativizza e non fa sconti. Difende la società aperta anche con decisione, se necessario schiacciando i suoi nemici.
Carlo Gambescia
(*) Si immagini, come nei film americani di serie B, la classica divisione dei ruoli durante gli interrogatori: il poliziotto buono da una parte, quello cattivo dall’altra. Ne avevamo già parlato qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/atreju-2025-la-destra-dei-due-volti-il.html .




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