sabato 27 dicembre 2025

Il silenzio come metodo: Soros, “Il Tempo” e l’italianizzazione (per ora mediatica) del modello Orbán. Però dietro c'è Maurras...

 


E così oggi siamo alla seconda puntata. La campagna lanciata dal “ Tempo” contro George Soros è grave . È grave per il linguaggio, per l’iconografia, per il dispositivo simbolico che mette in scena (*). Ma c’è qualcosa di ancora più inquietante: nessun altro giornale italiano ha sentito il bisogno di criticarla. Nessuno. Né a sinistra, né al centro, né tra coloro che amano definirsi custodi del pluralismo e della libertà di stampa.

Non si tratta di una distrazione collettiva. Si tratta  - per usare il sociologhese - di un silenzio strutturato, di una sospensione deliberata del giudizio che segnala un mutamento più profondo del sistema mediatico italiano. Quando una campagna di questo tipo passa senza essere nominata, commentata, problematizzata, il problema smette di essere “Il Tempo” e diventa, per usare una terminologia alla moda, l’ecosistema dell’informazione.





La rappresentazione di Soros è fin troppo chiara, ricorda, in forma magari meno esplicita, “L’Action Française di Maurras (nella foto di copertina): il giornalista, nazionalista e antisemita, poi collaboratore dei nazisti durante Vichy. Una figura infame. Capostipite di tutti gli antisemitismi europei. Per questo lo ricordiamo.  E chi pubblica in Italia libri contro Soros? Passaggio al Bosco. Quando si dice il caso…  E sia detto per inciso, anche per insozzare il lavoro di chiunque altro voglia studiare la metapolitica  in senso scientifico (ma questa è un altra storia). 

“Il Tempo" come dipinge "le Juif", Soros? Il grande vecchio, il denaro esibito, la rete invisibile che muoverebbe ONG, stampa, associazioni, sinistra. È un repertorio antico, riconoscibile, codificato. Orbán non ha inventato nulla, anche se il suo modello, diciamo soft, funziona, Si pensi a un antisemitismo strisciante, mai dichiarato, sempre alluso. Non esplicito, come dicevamo. Perché non serve urlarlo: basta suggerirlo. Ed è proprio questa forma indiretta a renderlo socialmente accettabile. Però dietro il "Tempo" e Orbán, ruggisce Maurras.

Eppure, davanti a tutto questo, le redazioni italiane hanno scelto il mutismo. Nessun editoriale, nessuna presa di distanza, nessuna riflessione sul confine – sempre più sottile – tra critica politica e costruzione del nemico. Il silenzio non è neutralità: è assuefazione.

Non siamo ancora nell’Ungheria di Orbán sul piano politico. Ma sul piano mediatico il modello è già all’opera. Non serve censurare, non serve proibire. Basta che tutti interiorizzino ciò che non va detto. È l’autodisciplina, non il bavaglio, a fare il lavoro più efficace.

 


In questo quadro pesa anche il silenzio di Giorgia Meloni, che non ha trovato una parola per prendere le distanze da una campagna che utilizza un immaginario ben noto. Nemmeno un distinguo formale. Il messaggio implicito è chiaro: questa narrazione non disturba. È difficile immaginare che si inizino campagne del genere senza un beneplacito politico, ovviamente tra le quinte.

C’è poi un nodo che andrebbe affrontato senza ipocrisie. George Soros è libero di spendere il proprio denaro come ritiene opportuno. Esattamente come lo sono stati Silvio Berlusconi – che difficilmente qualcuno definirebbe di sinistra – gli Agnelli, o i grandi finanziatori della destra globale. Finanziare idee, giornali, fondazioni, progetti politici non è un crimine: è una pratica strutturale delle democrazie liberali. Criminalizzarla selettivamente significa costruire un capro espiatorio, non difendere la trasparenza.


E qui emerge l’ipocrisia finale. Si demonizza Soros, ma nessuna inchiesta sui circuiti opachi di Donald Trump e dei miliardari che lo circondano. Trump è un miliardario, governa con i miliardari, è sostenuto da interessi economici enormi. Eppure quel mondo resta fuori dal mirino. Il bersaglio è sempre lo stesso, accuratamente scelto perché simbolicamente efficace.

 


La campagna contro George Soros è un segnale evidente. Ma il segnale più inquietante è che non ha provocato alcuna reazione.

Quando un quotidiano nazionale può utilizzare un immaginario allusivo, carico di stereotipi e di antiche ossessioni, senza incontrare una sola presa di distanza pubblica da parte del resto della stampa, significa che il problema non è più il singolo giornale, ma come dicevamo l’ecosistema che lo circonda.

Non servono censure, né leggi liberticide. Basta il silenzio.

Basta che tutti capiscano quali campagne si possono fare e quali è meglio non commentare. È così che un modello mediatico autoritario si afferma prima ancora di diventare politico.

 


Poi - magari la stessa sinistra taciturna -   ci si indigna per Orbán, per Trump, per le loro corti di miliardari e per la loro idea plebiscitaria del potere. Ma senza accorgersi che, nel frattempo, anche qui il terreno è stato preparato: non col rumore, ma con l’assuefazione.

Perché quando l’informazione rinuncia a parlare, non sta scegliendo la prudenza.

Sta scegliendo il campo.

Carlo Gambescia

 

(*) Ne abbiamo già parlato qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/quando-la-propaganda-si-traveste-da.html .

Nessun commento:

Posta un commento