mercoledì 17 dicembre 2025

Pace, mercato e guerra: un paradosso moderno

 


Pace è una parola magica. Funziona sempre. Tutti la invocano, tutti la rivendicano, nessuno osa dichiararsi contro. Proprio per questo è una parola pericolosa: più è consensuale, meno dice qualcosa di preciso. La retorica che l’accompagna è nota e rassicurante: i popoli vogliono la pace, le élite fanno la guerra; i primi sono innocenti, le seconde colpevoli. È una tesi antica, anzi antichissima. E come spesso accade alle tesi molto antiche, consola più di quanto spieghi.

La realtà è meno edificante. La guerra non è mai stata solo un’imposizione dall’alto. Ha sempre avuto una dimensione elitaria, certo, ma anche una capacità di mobilitazione, adesione, entusiasmo. Pensare i popoli come masse naturalmente pacifiche, trascinate controvoglia da governanti bellicisti, è una semplificazione che serve soprattutto a lavarsi la coscienza.

La guerra come privilegio

Per lunghi secoli la guerra è stata, in senso letterale, un affare per pochi. Un privilegio dei migliori: nobili, cavalieri, professionisti delle armi. Era limitata negli obiettivi, regolata nei tempi, relativamente contenuta nei costi umani. Non perché fosse più umana, ma perché era socialmente separata. Chi combatteva non coincideva con chi produceva, commerciava, viveva.



Il rovesciamento avviene con la modernità politica, quando entra in scena un concetto nuovo e potentissimo: la sovranità del popolo. La guerra smette di essere roba da re o mestiere (delle armi) e diventa una causa. Non più eserciti dinastici, ma popoli in armi. Non più conflitti circoscritti, ma guerre totali, combattute in nome di valori universali o ritenuti tali, dalla libertà alla rivoluzione, dalla nazione alla razza. Un mix (razza a parte) che ritroviamo nelle guerre rivoluzionarie, fuori della Francia, condotte al suono della Marsigliese dai generali repubblicani, primo esempio storico,di “guerra di popolo”, che Napoleone perfezionerà, razionalizzando ideologicamente e militarmente la carneficina.

È qui che nasce il problema.

Il pacifismo come reazione moderna

Il pacifismo non è un sentimento eterno. È una reazione storica precisa: nasce quando la guerra smette di essere elitaria e diventa democratica. Quando non combattono più pochi per conto di molti, ma molti in nome di se stessi. Quando la legittimazione della guerra passa attraverso il consenso, l’identificazione, la mobilitazione emotiva.

Il pacifismo moderno non si oppone alla guerra in astratto. Si oppone alla guerra di popolo, alla sua capacità di assorbire intere società, economie, generazioni. È una critica alla politicizzazione totale del conflitto armato.

Ma qui si apre una contraddizione che raramente viene affrontata fino in fondo.



Un secolo di prova storica: liberalismo, pace e reazione nazionalista

La tesi secondo cui mercato e istituzioni liberali producono pace non è una costruzione astratta. Ha alle spalle una verifica storica precisa. Tra il Congresso di Vienna (1815) e lo scoppio della Prima guerra mondiale (1914), l’Europa conosce il periodo di pace più lungo e stabile della sua storia moderna: quasi un secolo senza guerre generali tra grandi potenze, un fatto senza precedenti dopo tre secoli di conflitti quasi continui. Non è un’assenza totale di conflitti, ma l’assenza di guerre generali tra grandi potenze. E questo è merito del liberalismo e delle sue istituzioni: parlamenti e mercato in primo luogo.

Infatti, il secolo XIX coincide con l’avanzare — diseguale ma reale — del liberalismo: apertura commerciale, standard monetari comuni, integrazione finanziaria, limitazione progressiva del potere arbitrario degli Stati. Tra il 1820 e il 1913 il commercio internazionale cresce di circa dieci volte; la quota degli scambi sul prodotto europeo raddoppia; la mobilità di capitali e persone raggiunge livelli che non verranno eguagliati fino alla fine del Novecento. La pace non nasce da un’improvvisa moralizzazione dei governi, ma dall’intreccio crescente degli interessi economici. La guerra diventa costosa, rischiosa, difficilmente giustificabile.

La rottura dell’equilibrio

Questo equilibrio si rompe all’inizio del Novecento. E qui vorremmo, segnalare, che il fenomeno noto come imperialismo, che si sviluppa alla fine dell’Ottocento, non è un prolungamento del liberalismo, ma l’ultimo sussulto di antiche aristocrazie militare, in conflitto con la borghesia pacifista. Oltre che essere il prodotto di una fase di depressione economica (1873-1896), che si voleva curare, rendendola così ancora più grave, con l’imperialismo e il protezionismo. Pertanto, dietro l’autarchia (imperiale o militare) c’è sempre non un eccesso di mercato ma una reazione politica al mercato.

Tra il 1914 e il 1945 l’Europa attraversa trent’anni di guerra quasi continua, con oltre 70 milioni di morti, in larga parte civili, e una distruzione sistematica delle economie nazionali. È l’età dei nazionalismi, che dichiarano di volere la pace ma organizzano la società in funzione del conflitto. Come in precedenza Guglielmo II parla di equilibrio e sicurezza, ma costruisce una potenza fondata sulla competizione imperiale, così Hitler e Mussolini promettono ordine, stabilità e pacificazione interna, mentre smantellano sistematicamente le interdipendenze economiche e subordinano il mercato a obiettivi politico-militari.



Imperialismo politico

Non è il mercato a guidare questa fase, ma come detto un imperialismo politico: un’economia comandata dallo stato, orientata all’autarchia, alla conquista, alla preparazione permanente della guerra. In questo senso, il fascismo e il nazismo possono essere letti come l’ultimo sussulto delle antiche logiche aristocratiche della guerra: élite armate che trascinano intere società in un conflitto presentato come destino storico.

Il risultato è noto: la guerra totale.

La pace dopo la tempesta

Dopo il 1945, la lezione viene — almeno in parte — appresa. Tra il 1950 e il 1990 il commercio mondiale cresce a un ritmo superiore a quello della produzione, mentre in Europa occidentale scompaiono le guerre tra stati comparabili, cioè stati con capacità economiche e militari tali da potersi infliggere reciprocamente danni gravi in caso di guerra: una fortunata anomalia storica spiegabile solo con il benefico intreccio tra mercato, istituzioni e sicurezza collettiva (anche grazie al potere deterrente dell'atomica). 

Nella seconda metà del Novecento, soprattutto in Europa occidentale, il mercato torna a prevalere sulla guerra. L’integrazione economica, le istituzioni sovranazionali, la liberalizzazione degli scambi non eliminano il conflitto, ma lo rendono strutturalmente meno distruttivo. Non è un’epoca idilliaca, ma è un’epoca in cui la guerra tra Stati comparabili diventa l’eccezione.

Oggi, però, il linguaggio politico segnala un ritorno inquietante. Leader che parlano simultaneamente di pace e autarchia, di cooperazione e di chiusura, di sovranità assoluta e stabilità globale. È una contraddizione già vista. Storicamente, non ha mai prodotto pace. A livello diffuso, cioè tra la gente, se ci si passa la battuta, è un atteggiamento tipico di certo cretinismo da bar sport, spacciato per “buon senso”, quello che consiglia agli uomini di “farsi gli affari propri”… (veramente talvolta si usa un’espressione più colorita). Insomma l’elogio del chilometro zero come strumento di pace. Non è così, come abbiamo visto.



Dal campo di battaglia al mercato

Le società moderne hanno trovato un modo per ridurre la guerra senza abolire il conflitto: trasporlo. Il mercato svolge esattamente questa funzione. Non elimina la competizione, la canalizza. Non sopprime lo scontro, lo rende reversibile. Al posto delle armi: prezzi, contratti, scambi. Al posto della distruzione: fallimenti, riconversioni, adattamenti.

Il mercato non è la pace dei buoni sentimenti. È una pace fredda, imperfetta, spesso cinica. Ma è pace nel senso politico del termine: riduce gli incentivi strutturali alla guerra tra stati integrati economicamente. Non perché gli uomini diventino migliori, ma perché diventa più conveniente non combattersi. 

Per questo l’idea di una pace senza mercato è un’illusione. Peggio: è una contraddizione.

Pacifismo e nazionalismo: un matrimonio impossibile

Non si può essere nazionalisti e pacifisti allo stesso tempo. Non per ragioni morali, ma per una questione di logica istituzionale. Il nazionalismo, quando è coerente, tende all’autarchia: controllo dei confini, riduzione delle interdipendenze, primato della sovranità economica. L’autarchia, storicamente, è una formidabile fabbrica di conflitti.

La globalizzazione — con tutti i suoi difetti — ha funzionato come una gigantesca infrastruttura di pace. Ha legato interessi, reso costosa la guerra, creato perdite diffuse laddove prima c’erano solo vincitori e vinti. Essere contro la globalizzazione e insieme invocare la pace significa volere gli effetti senza accettarne le condizioni.

Il sovranismo dice di volere la pace e i commerci, – si pensi a Putin e Trump, e ancora prima a Hitler e Napoleone – ma organizza il mondo come se la guerra fosse inevitabile.



Il paradosso liberale

Resta l’obiezione più scomoda: se il mercato produce pace, perché i liberali fanno talvolta la guerra?

La risposta non è piacevole, ma è semplice. La pace di mercato non è garantita automaticamente. Esiste solo finché esistono istituzioni che la rendono possibile: libertà di scambio, sicurezza giuridica, apertura economica. Il multilateralismo, per usare un termine tecnico, Quando queste istituzioni vengono aggredite o rifiutate – bilateralismo – il conflitto rientra dalla finestra.

In certi casi, difendere l’ordine che riduce strutturalmente la guerra può implicare l’uso della forza. Non è una giustificazione morale della guerra, ma il riconoscimento di una tragedia politica: la pace liberale non è pacifista, perché non può permettersi di esserlo sempre.

Possibili altre obiezioni

(1) “Il mercato non ha impedito le guerre”.
Vero, ma irrilevante. Nessuna istituzione elimina la guerra in assoluto. Il punto non è l’assenza totale di conflitti, ma la riduzione strutturale della loro probabilità e intensità. Le guerre tra economie profondamente interdipendenti sono più rare, più costose e più difficili da legittimare politicamente. Il mercato non è una garanzia metafisica di pace, è un potente disincentivo empirico alla guerra.

(2) “La globalizzazione produce diseguaglianze, quindi conflitto”.
La globalizzazione produce diseguaglianze visibili, non necessariamente maggiori di quelle prodotte dall’autarchia. Le società chiuse non sono più egualitarie: sono solo più povere, più rigide e più aggressive verso l’esterno. Storicamente, la combinazione più esplosiva non è mercato e diseguaglianza, ma autarchia, stagnazione e mobilitazione identitaria.



(3)“Si può essere pacifisti e sovranisti”.
Si può dichiararlo, non praticarlo. Il sovranismo economico riduce le interdipendenze e aumenta la competizione geopolitica. Quando gli scambi diminuiscono, cresce il peso della forza. È una regolarità storica, non un’opinione ideologica. Il pacifismo sovranista è una contraddizione  in termini.

(4) “Così si giustifica la guerra liberale”.
No. Già abbimao in parte risposto: si rifiuta la retorica pacifista assoluta, non si santifica la guerra. Riconoscere che in alcuni casi la forza viene usata per difendere un ordine che riduce complessivamente la guerra non equivale a celebrare la guerra stessa. È una distinzione scomoda, ma necessaria, tra spiegazione e giustificazione.

(5) “Questa è una visione cinica della pace.”
Esatto. Ed è un pregio, non un difetto. La pace fondata sulla virtù morale degli attori è fragile; quella fondata su interessi intrecciati e istituzioni stabili è meno nobile, ma più duratura. Le società moderne non funzionano sulla base della bontà, ma sulla base di incentivi.

Conclusioni

La pace non è uno stato d’animo, né una virtù individuale. È un assetto istituzionale. Senza mercato, senza interdipendenza economica, senza istituzioni liberali, la pace resta una parola nobile e vuota.



Non ogni guerra produce pace. Ma nessuna pace duratura nasce dall’autarchia, dal nazionalismo economico o dalla nostalgia per una sovranità armata. Chi vuole davvero la pace deve accettarne il prezzo. E il prezzo, oggi, si chiama protezione del liberalismo.  Anche con la guerra. Ovviamente, quando non si può proprio farne a meno.

Carlo Gambescia

 

Bibliografia minima

I pochi dati citati sono rinvenibili in qualsiasi buona storia economica, a partire dalla Storia economica Cambridge (Einaudi). Quanto al rapporto tra i consistenti relitti di una tradizione aristocratica militare, antiliberale e guerre novecentesche, rinviamo al notevole studio di A. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1999. Non si dimentichi che fascismo e nazionalsocialismo dipingevano se stessi come nuove aristocrazie militari. Per una sociologia dello stato, come prolungamento delle conquiste militari si veda F. Oppenheimer, Lo Stato. Storia ed evoluzione, uno sguardo sociologico, a cura di C. Gambescia, Edizioni Il Foglio, 2020, un piccolo classico in argomento, che ricostruisce molto bene il contrasto tra logica militare e logica di mercato. Infine per un’analisi dei complessi rapporti tra liberal-democrazia e guerra, cfr. A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Il Mulino, 1997. Come si osserva, talvolta anche le democrazie ricorrono alla guerra, ma lo fanno in misura maggiore contro le autocrazie che contro altre democrazie.

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