martedì 13 febbraio 2024

Divagazioni (liberali) su Javier Milei

 


Fa piacere che “Il Foglio”, unico tra i giornali italiani, scriva che Javier Milei non è un Trump qualsiasi. Cioè un figlio di papà, con manie di grandezza, che gioca a fare il Mussolini post-democratico, sparandole grosse (come, da ultimo, quella sul recupero crediti Nato via invasione Russa dell’Europa). Se Trump non è cretino, forse gioca a farlo: si diverte insomma. La politica come passatempo. Il che è ancora più pericoloso, perché gli Stati Uniti non sono il principato del Liechtestein.

Milei invece è un liberale, probabilmente un dottrinario (in senso particolare, come vedremo), perché non demorde sui principi liberali, fondati sulla difesa dell’individuo rispetto al moderno Leviatano, il welfare state. Sono cose sul liberalismo, che in Italia, asserivano, senza correre dietro alle ultime mode liberali, Nicola Matteucci, filosofo della politica, e Sergio Ricossa, economista. Probabilmente, anche se qualche professore, liberale ma statale per cattedra e paciosi  costumi di vita, storcerà il naso, parliamo dei due più importanti pensatori liberali italiani della seconda metà del Novecento. Leggere per credere.

Dicevamo di Milei e del suo dottrinarismo particolare. Innanzitutto va rilevata l’incompatibilità di carattere (liberale) con Trump, Bolsonaro, Giorgia Meloni, Orbán e altri politici di estrema destra, che se il liberalismo fosse una scuola secondaria, non sarebbero andati oltre le dispense inviate per posta della vecchia Radio Elettra.

Battute a parte, che Milei si dichiari,  come si legge,  "anarco-capitalista" – ecco il dottrinario, ma particolare –   è colpa del pensiero liberale, in particolare europeo, che non ha saputo rivalutare e rilanciare i suoi classici.  Per dirne una, e sempre proposito di Matteucci (che ne scrisse una fondamentale monografia), in Italia non abbiamo ancora un’edizione critica, con i controfiocchi, delle Considération sur la Nature de la Rèvolution de France (1793), di Jacques Mallet-Du Pan, ginevrino: per capirsi, intellettualmente parlando, una specie di Raymond Aron in faccia alla Rivoluzione Francese.

Milei, che è professore di economia, si è perciò  inevitabilmente formato alla scuola dei Mises e degli Hayek (semplifichiamo le sue letture). Pensatori che rappresentano la sacrosanta reazione liberale, soprattutto degli economisti, al collettivismo e al costruttivismo sociale novecentesco: un fenomeno che abbraccia il comunismo, il socialismo, il nazionalsocialismo, estendendosi al welfarismo nelle sue varie versioni, cristiano-socialista, liberalsocialista, social-sciovinista.

Insomma Milei, ha fatto tesoro di ciò che ha trovato. E non è poco, perché Mises e Hayek sono due signori pensatori. Ma non sono “tutto” il liberalismo. Se proprio lo si deve criticare, si pensi a  un Milei, che ora gioca in Seria A, ha doti agonistiche enormi,  però è privo dei fondamentali tecnici, come l’approfondimento – semplifichiamo, uno per tutti – degli scritti di Mallet-Du Pan.

Fondamentali politici che lo aiuterebbero, sul piano del pensiero, a riallacciare i ponti con la grande tradizione liberale ottocentesca, dei Constant, dei Guizot, dei Tocqueville (per fare solo tre nomi, per giunta  francesi) sviluppatasi come critica ragionata del giacobinismo (e al cesarismo), che prima di essere un collettivismo economico, fu una specie di teologia politica. Detto altrimenti una secolarizzazione, consapevole o meno, di concetti teologici. Su questo processo, per capirsi, di “bene assoluto” (rivoluzione e democrazia diretta), contro il “male assoluto” (le riforme e la democrazia rappresentativa) Mallet-Du Pan scrisse pagine immortali.

Diciamo questo per quale ragione? Perché insistere troppo, anche se giustamente sui fondamentali economici, rischia di condurre alla sottovalutazione degli aspetti politici del liberalismo, come per l’appunto la democrazia rappresentativa. Di qui due pericoli: 1) il pericolo del liberalismo populista, destrorso, gran calderone che vede sobbollire e mescolarsi Trump, Meloni, Bolsonaro, Orbán, come reazione al socialdemocratismo di un Lula e di un Sánchez, oppure al liberalismo welfarista di un Macron ; 2) la tentazione, altrettanto pericolosa, di ricorrere alla figura contraddittoria del “dittatore liberale”, per portare a effetto le agognate e necessarie riforme economiche.

Il “decretone” d Milei respinto dal Congresso prevedeva i pieni poteri per due anni (prorogabili) allo scopo di attuare le riforme economiche. Però, con i precedenti di Pinochet padrino dei Chicago Boys, sebbene molto romanzati dalla sinistra, Milei rischia di incagliarsi del tutto. Soprattutto sul piano della pubblica opinione, dei salotti buoni  e meno buoni.  Cosa che non merita, perché le sue  idee sono interessanti e valide.  O comunque dirompenti per i vecchi equilibri welfaristi basati sul voto di scambio (consenso  per assistenza sociale). 

In questo quadro, la visita italiana di Milei ha prodotto due effetti: la solidarietà delle destre, ma come sembra solo formale (Giorgia Meloni è statalista), e il disappunto della sinistra (altrettanto statalista, che dipinge Milei come uno spettinato pazzo ultraliberista). Quanto ai baci e agli abbracci con il papa, siamo davanti al puro folclore televisivo. Francesco, non è comunista come sostiene Milei, ma sicuramente è pauperista, perciò  peggio ancora.

Francesco riteologizza la politica. E qui torniamo alla critica radicale del giacobinismo (una teologia politicamente mascherata, diciamo in uscita, quella di Francesco invece è in entrata), splendidamente condotta da Jacques Mallet-Du Pan. E da Matteucci e Ricossa.

Concludendo, Milei deve insistere sulle riforme liberali, ma come direbbe un altro grande filosofo del Novecento (liberale, anch’egli, “nel suo “piccolo”), Franco Califano, “se deve da ‘na regolata”. Soprattutto sul piano politico, del rispetto delle regole liberal-democratiche. Non deve farsi risucchiare dall’estrema destra statalista se non addirittura neo o semifascista. Deve pesare le parole. E pensarci sopra non una ma mille prima di allearsi con certa gente, anche sul piano internazionale.

Benché, cosa che va onestamente riconosciuta, vedere quella che Milei chiama “la casta” argentina, socialdemocratica e peronista, perseverare, dandosi le arie da prima della classe, nell’errore assistenzialista, può far perdere la pazienza. Che serva veramente un dittatore liberale? Ma allora Mallet-Du Pan, Matteucci, Ricossa?

Julien Freund, altro pensatore di sentimenti liberali – e concludiamo veramente – parlò dell’assenza di una generazione di politici capaci di frenare la decadenza dell’Occidente. Milei potrebbe essere uno di questi? E’ ancora presto per dirlo. Ma, comunque sia, in che modo può diventarlo? Per dirla tutta, a mali estremi, estremi rimedi? Coercizione per giungere alla libertà? Ma non è la stessa ricetta di giacobini e comunisti? Oppure, altra ricetta politica, rialzarsi, riprendere la lotta, ma senza forzature illiberali? Dal momento che la politica è soprattutto pazienza e attesa del momento giusto.   O no?

Carlo Gambescia

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