martedì 7 dicembre 2021

L’archeologia rivoluzionaria del “Manifesto”

 


Il mito dello sciopero generale viene da lontano. Rinvia a un pensatore come Georges Sorel che non dispiaceva a Mussolini e Gramsci.

Che cosa resta dello sciopero generale a un più di un secolo di distanza dalle teorie soreliane sulla moralità dell’opposizione operaia al capitalismo? Il lato patetico.

Si veda ad esempio il titolo del “Manifesto” a proposito della decisione di Landini di indirne uno per il 16 dicembre (*): “Finalmente ecco lo sciopero generale”.

Le ragioni del leader della Cgil (affiancato dalla Uil) non sono rivoluzionarie ma puramente economiche. Perché, come egli dice, “pur apprezzando lo sforzo” di Draghi, si potrebbe fare molto di più per i lavoratori.

Parleremmo perciò di sciopero economicista.

Invece, se si va a rileggere Sorel, si scopre che la sua principale accusa ai sindacati era di voler trasformare gli operai in borghesi puntando sull’aumento dei salari e sulle conquiste previdenziali e assistenziali.

E proprio per queste ragioni anti-economiciste, o meglio anti-riformiste, Sorel piaceva a Mussolini, allora socialista rivoluzionario, e Gramsci, simpatizzante, forse inconscio, del bolscevismo.

Di conseguenza, oggi, lo sciopero in senso soreliano ha un valore archeologico. Eppure alcuni ne ammirano ancora la bellezza con toni di rimpianto. Come i patetici paleocomunisti del “Manifesto”: veri e propri turisti in fila sotto il sole per ammirare il Colosseo e i ruderi del Foro Romano. Sperando che tra le rovine spunti qualche antico romano a bordo della macchina del tempo. In realtà, intorno al Colosseo, gli unici a fare affari d’oro sono i finti centurioni con accento rumeno.

Ciò non significa che il conflitto sociale sia scomparso dagli schermi radar delle lotte sindacali. Però ha assunto una chiave – ripetiamo – riformista, economicista se si vuole.

È un bene? È un male? Si tratta sicuramente di un bene, per quel che riguarda il mondo del lavoro e dell’economia, in cui fortunatamente non si parla più di rivoluzione, ma solo di aumenti e di scatti.

Non è invece un bene lo sciopero in quelli che un tempo si chiamavano servizi pubblici. Oggi gestiti da privati o in compartecipazione con i comuni, quindi con il pubblico, soprattutto sul piano locale.

Uno sciopero dei trasporti danneggia gli utenti, non solo le imprese e i datori di lavori. Per non parlare del settore statale in cui si sciopera contro se stessi: un suicidio economico. Però regolarmente ( e tristemente) ripianato dagli incolpevoli cittadini, costretti a pagare due volte, come utenti danneggiati e come contribuenti.

Comunque sia, sono forme di conflitto sociale che rinviano alla moderna dialettica degli interessi economici e alla fisiologica dinamica dei gruppi di pressione. Tra i quali, come deve essere in ogni società aperta, c’è il sindacato. Oggi la società italiana non è più quella tra Otto e Novecento, quando il Primo Maggio il governo schierava le truppe.

Perciò suona patetico il sospiro di sollievo in prima pagina del “Manifesto”. Che sembra guardare allo sciopero con gli occhi del bisnonno Sorel.

Archeologia, insomma. Rivoluzionaria.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.giornalone.it/prima-pagina-il-manifesto/ .

Nessun commento:

Posta un commento