mercoledì 13 maggio 2020

Autobiografia cognitiva di un liberale
Il “complesso” del comunista


Ieri al telefono, un vecchio amico francese, mi ha accusato di soffrire di una specie  di “complesso del comunista”. Nel senso, spiegava, di un intellettuale -  che sarei io -  rimasto alla Guerra Fredda.  Insomma,   vedrei malefici  comunisti ovunque. Il tono era scherzoso, forse ironico,  ma fino a un certo punto.
L’amico, di cui non farò  il nome, non ha tutti i torti, tuttavia prima ci si deve intendere.  Come però? Attraverso una specie  di   biografia cognitiva.  Una ricostruzione del mio pensiero in materia  a  uso e consumo degli amici lettori.
In effetti, come nell’editoriale su Gualtieri,  tendo a nutrire  come Smilla  un senso spiccato non per la neve ma  per i comunisti. Però -  e si tratta di differenza non secondaria  -  l’oggetto delle “mie cure” non è il comunismo o il comunista, in quanto tali, ma un certo tipo di mentalità culturale, denominata da studiosi molto più bravi di me, “costruttivismo politico”.
Che cos’è il costruttivismo?  È la pretesa di poter  modificare la realtà sociale, economica, culturale sulla base di idee astratte,  concepite a tavolino, puntando  su misure politiche  implementate dall’alto.
Sotto questo profilo comunismo, fascismo,  nazismo, welfarismo,  ecologismo, fondamentalismo religioso sono tutte forme di costruttivismo. Parliamo di  dottrine, cioè sistemi chiusi considerati normativi (dal  “marxismo-leninismo” allo  “stato etico”),  che  di regola generano il contrario di ciò che si propongono di ottenere. Per quale ragione?  Perché la realtà è  un fenomeno complesso legato alle complicate  interazioni tra miliardi di uomini, tra di loro differenti, per intelligenza e  doti morali. E quindi la realtà  finisce sempre vendicarsi di ogni forma di idealismo dottrinario.

Perciò, ripeto, non solo comunismo... Mi spiego meglio però.
Il costruttivismo implica una visione dell’uomo come essere perfettibile,  che,  volente o nolente, "deve" migliorarsi,  fino a conseguire il massimo livello di una o più qualità  positive,  dal  senso di eguaglianza, allo  spirito di solidarietà, dalle capacità altruistiche all’amore puro per i nostri simili. Il costruttivismo pretende di costringere l’uomo a essere qualcosa di "precostituito", ovviamente secondo una certa dottrina  politica   imposta da altri - in genere saggi e filosofi -   e,   cosa più grave ancora, dall’alto di un purissimo Olimpo ideologico.  

L’idea “della politica  trasformazionale”, come base ideologica del costruttivismo,  comporta  l’intervento  della politica e delle sue istituzioni  per perseguire un’idea di bene superiore, che prescinde in modo sistematico  dalla libertà di ogni uomo di decidere cosa sia bene per sé. Di qui, la natura totalitaria del costruttivismo,  nel senso di anteporre il tutto  alle singole parti.
Che poi il tutto sia rappresentato dalla razza, dalla classe, da una fede religiosa, dallo stato etico, dal dovere alla salute dell’uomo e del pianeta,  non cambia la potenza  totalitaria  del costruttivismo.  E in particolare dei  suoi pericolosi effetti perversi. Come del resto provano le vicende del comunismo, del fascismo, del nazismo, eccetera, eccetera.
Il lettore potrebbe chiedersi: se le cose stanno così, anche il liberalismo, soprattutto quando insiste sugli aspetti economici,  non è anch’esso  una  forma di costruttivismo? 
No. Perché si  è generato dal basso, sulla base di trasformazioni spontanee della realtà, frutto di interazioni,  intellettuali e pratiche  (disorganizzate: non calate dall’alto), nei campi  della società, dell’economia, della cultura e  infine della politica, sviluppatesi fin dal tardo medioevo. Trasformazioni  che solo al principio dell’Ottocento, una volta compreso che "funzionavano" meglio di altre, hanno assunto il nome di liberalismo.
Il liberalismo, probabilmente, resta  la concezione politica più vicina alla reale dinamica sociale, in qualche modo la più verosimile sotto il profilo cognitivo. Una dinamica sociale - attenzione -   che si compone di  miliardi di libere  interazioni,  il cui senso, al di là dell’interesse immediato (interesse in senso lato e neutro), sfugge agli stessi attori, che come il famoso borghese gentiluomo di Molière, parlavano  e parlano ancora  in prosa (di libertà) senza saperlo...

È però  vero, che lo stesso liberalismo, una volta stabilizzatosi, come dottrina politica ( o meglio come insieme di concezioni politiche*), grosso modo dalla seconda metà dell’Ottocento, insomma una volta costretto  a sporcarsi “ufficialmente”  le mani  con il demagogismo democratico, si è esposto al rischio costruttivista,  soprattutto nelle sue versioni sociali (in particolare liberal-socialiste) ed economiciste (come certo rigido liberismo).
Resta però il fatto, che nella sua versione classica, in qualche misura  proto-liberale,  quale fedeltà cognitiva ai meccanismi della mano invisibile del sociale,  resta il più potente antidoto a qualunque forma di costruttivismo.
Il che spiega, con buona pace del caro amico francese, il mio “complesso”. O altrimenti detto,  la mia profonda avversione cognitiva,  come sociologo e come liberale,  nei riguardi del comunismo e di tutte le forme di costruttivismo.   

Carlo Gambescia                    


(*) Sul punto mi permetto di rinviare al mio Liberalismo triste. Un percorso da Burke a  Berlin, Edizioni il Foglio 2013.