Autobiografia cognitiva di un liberale
Il “complesso” del comunista
Ieri
al telefono, un vecchio amico francese, mi ha accusato di soffrire di una
specie di “complesso del comunista”. Nel
senso, spiegava, di un intellettuale -
che sarei io - rimasto alla
Guerra Fredda. Insomma, vedrei
malefici comunisti ovunque. Il tono era
scherzoso, forse ironico, ma fino a un
certo punto.
L’amico, di cui non farò il nome, non
ha tutti i torti, tuttavia prima ci si deve intendere. Come però? Attraverso una specie di biografia cognitiva. Una ricostruzione del mio pensiero in materia a uso e consumo degli amici lettori.
In
effetti, come nell’editoriale su Gualtieri,
tendo a nutrire come Smilla un
senso spiccato non per la neve ma per i
comunisti. Però - e si tratta di
differenza non secondaria - l’oggetto delle “mie cure” non è il comunismo
o il comunista, in quanto tali, ma un certo tipo di mentalità culturale,
denominata da studiosi molto più bravi di me, “costruttivismo politico”.
Che
cos’è il costruttivismo? È la pretesa di
poter modificare la realtà sociale,
economica, culturale sulla base di idee astratte, concepite a tavolino, puntando su misure politiche implementate dall’alto.
Sotto
questo profilo comunismo, fascismo, nazismo, welfarismo, ecologismo, fondamentalismo
religioso sono tutte forme di costruttivismo. Parliamo di dottrine, cioè sistemi chiusi considerati
normativi (dal “marxismo-leninismo”
allo “stato etico”), che di regola generano il contrario di ciò che si
propongono di ottenere. Per quale ragione?
Perché la realtà è un fenomeno
complesso legato alle complicate
interazioni tra miliardi di uomini, tra di loro differenti, per
intelligenza e doti morali. E quindi la
realtà finisce sempre vendicarsi di ogni forma di idealismo dottrinario.
Perciò, ripeto, non solo comunismo... Mi spiego meglio però.
Il costruttivismo implica una visione dell’uomo come essere perfettibile, che, volente o nolente, "deve" migliorarsi, fino a conseguire il massimo livello di una o più qualità positive, dal senso di eguaglianza, allo spirito di solidarietà, dalle capacità altruistiche all’amore puro per i nostri simili. Il costruttivismo pretende di costringere l’uomo a essere qualcosa di "precostituito", ovviamente secondo una certa dottrina politica imposta da altri - in genere saggi e filosofi - e, cosa più grave ancora, dall’alto di un purissimo Olimpo ideologico.
Il costruttivismo implica una visione dell’uomo come essere perfettibile, che, volente o nolente, "deve" migliorarsi, fino a conseguire il massimo livello di una o più qualità positive, dal senso di eguaglianza, allo spirito di solidarietà, dalle capacità altruistiche all’amore puro per i nostri simili. Il costruttivismo pretende di costringere l’uomo a essere qualcosa di "precostituito", ovviamente secondo una certa dottrina politica imposta da altri - in genere saggi e filosofi - e, cosa più grave ancora, dall’alto di un purissimo Olimpo ideologico.
L’idea
“della politica trasformazionale”, come
base ideologica del costruttivismo,
comporta l’intervento della politica e delle sue istituzioni per perseguire un’idea di bene superiore, che
prescinde in modo sistematico dalla
libertà di ogni uomo di decidere cosa sia bene per sé. Di qui, la natura
totalitaria del costruttivismo, nel
senso di anteporre il tutto alle singole parti.
Che
poi il tutto sia rappresentato dalla
razza, dalla classe, da una fede religiosa, dallo stato etico, dal dovere alla
salute dell’uomo e del pianeta, non
cambia la potenza totalitaria del costruttivismo. E in particolare dei suoi pericolosi effetti perversi. Come del
resto provano le vicende del comunismo, del fascismo, del nazismo, eccetera,
eccetera.
Il
lettore potrebbe chiedersi: se le cose stanno così, anche il liberalismo,
soprattutto quando insiste sugli aspetti economici, non è anch’esso una forma di costruttivismo?
No.
Perché si è generato dal basso, sulla
base di trasformazioni spontanee della realtà, frutto di interazioni, intellettuali e pratiche (disorganizzate: non calate dall’alto), nei
campi della società, dell’economia, della cultura e infine della politica, sviluppatesi fin dal
tardo medioevo. Trasformazioni che solo
al principio dell’Ottocento, una volta compreso che "funzionavano" meglio di altre, hanno assunto il nome di liberalismo.
Il
liberalismo, probabilmente, resta la
concezione politica più vicina alla reale dinamica sociale, in qualche modo la
più verosimile sotto il profilo cognitivo. Una dinamica sociale - attenzione
- che si compone di miliardi di libere interazioni, il cui senso, al di là dell’interesse
immediato (interesse in senso lato e neutro), sfugge agli stessi attori, che
come il famoso borghese gentiluomo di Molière, parlavano e parlano ancora in prosa (di libertà) senza saperlo...
È
però vero, che lo stesso liberalismo,
una volta stabilizzatosi, come dottrina politica ( o meglio come insieme di
concezioni politiche*), grosso modo dalla seconda metà dell’Ottocento, insomma
una volta costretto a sporcarsi
“ufficialmente” le mani con il demagogismo democratico, si è esposto
al rischio costruttivista, soprattutto nelle sue versioni sociali (in
particolare liberal-socialiste) ed economiciste (come certo rigido liberismo).
Resta
però il fatto, che nella sua versione classica, in qualche misura proto-liberale, quale fedeltà cognitiva ai meccanismi della
mano invisibile del sociale, resta il
più potente antidoto a qualunque forma di costruttivismo.
Il
che spiega, con buona pace del caro amico francese, il mio “complesso”. O
altrimenti detto, la mia profonda
avversione cognitiva, come sociologo e
come liberale, nei riguardi del
comunismo e di tutte le forme di costruttivismo.
Carlo Gambescia
(*)
Sul punto mi permetto di rinviare al mio Liberalismo
triste. Un percorso da Burke a Berlin,
Edizioni il Foglio 2013.