venerdì 30 marzo 2018

I rimproveri  di un  “amico americano”
Dialogo su Cinque Stelle 
( e sui  massimi sistemi)





Ieri un  amico italiano  che insegna scienze politiche negli Stati Uniti,  ora in Italia per le festività, mi chiedeva ragione, stupito, quasi rimproverandomi,  dell’eccessiva  durezza verso il movimento pentastellato.  Aggiungendo che in America, negli ambienti colti, liberal, pur ritenendolo un movimento populista, non  lo si considera politicamente pericoloso,  a differenza  di  tutto quel che  invece si muove alle spalle  di Trump. 
Qual è stata la mia risposta all’ "amico americano"?
Che negli Stati Uniti la  politica, in particolare il sistema istituzionale, ha radici molto salde. Come provano, ad esempio, gli ostacoli che sta trovando sulla sua strada un leader semi-autocratico come Trump. E  che  quindi ci si  può permettere  il lusso di mandare alla Casa Bianca un personaggio  politico, stupido ma inquietante,  come l’attuale Presidente americano.
In Italia, oltre a non esistere un valido sistema di check and balance (si pensi solo  al ruolo politicamente  debordante della magistratura),  a differenza degli Stati Uniti,  esiste una solida - purtroppo -  tradizione antidemocratica.  L’Italia ha inventato il fascismo,  fenomeno  dalle profonde radici populiste.  Inoltre, le culture cattolica e marxista  hanno sempre profondamente disprezzato le istituzioni e i valori liberal-democratici. Per non parlare dell' economia di mercato...  
Di conseguenza,  un movimento politico,  privo di democrazia interna (teleguidato da un comico e da un web-manager), che  si ritiene depositario, per scienza infusa,  di verità assolute,  a cominciare dal monopolio dell'onestà e del bene nazionale per ogni singolo individuo,  non può non preoccupare chiunque abbia a cuore il destino democratico  del  Paese. 
Al che l' "amico americano"  ha notato  che è buona regola delle democrazie liberali -   “da te difese a spada tratta”, ha ironizzato -   includere i diversi, i politicamente diversi, per metterli alla prova, facendoli governare.  
Una puntualizzazione  -  ho subito sottolineato  -  sicuramente esatta in linea di principio.  Tuttavia, una tesi del genere - ho aggiunto  -  se portata alla estreme conseguenze condurrebbe le liberal-democrazie all’autodistruzione.  Perché i suoi nemici potrebbero approfittare della libertà, messa  generosamente a disposizione di tutti,  per agguantare il potere e smantellare tutto.
Sapete, cosa mi ha risposto l’amico professore ?  Che è un rischio che le liberal-democrazie devono accettare, per un vincolo di coerenza. Altrimenti non sarebbero tali.  Inoltre -   ha aggiunto  - su che basi stabilire ciò che è liberal-democratico da  ciò che non  è?
Devo dire, che mi sono sentito stretto nell’angolo, almeno dal punto di vista della correttezza dell’argomentazione. In effetti,   la prima  parte del  ragionamento fila.  Come del resto, dal punto di vista di una visione pacificata e pragmatica  della politica, dunque liberale,  ha senso l’accettazione del rischio di governo.  Ma se l’avversario non è pacifico né liberale?   Vale la pena accettare il rischio dell’autodistruzione?
Qui   -  punto divisivo sul quale però ci siamo trovati d’accordo  -  la scelta dipende dalle rispettive antropologie politico-morali. Ovviamente, tra noi due, molto differenti, se non addirittura opposte.
L' "amico  americano”  crede fermamente  nella possibilità di insegnare la virtù  e di poterla trasmettere a tutti attraverso la  conoscenza.  Quindi, la sua,  è una vera e propria fede nel nesso identitario virtù-conoscenza.  Di qui, l’accettazione del rischio, come veicolo pragmatico, per giungere alla conoscenza, e dunque alla virtù.  A suo avviso, non esistono uomini buoni o cattivi per definizione, ma uomini perfettibili, grazie all’apprendimento della virtù. Quindi attraverso il dialogo, mai con la forza.  
Io invece, non credo che  la conoscenza sia virtù,  e se lo è, solo  per pochissimi.  E soprattutto non ritengo  si possa trasmettere a esseri sociali, per costituzione,  più disposti al credere (qualunque cosa) che al capire ( e bene, solo alcune cose fondamentali). Di qui, il pericolo di mettersi, anche democraticamente - via elezioni -   nelle mani di un pugno di ignoranti, addirittura così  fieri della propria ignoranza, fino a farne una virtù, quindi capacissimi di distruggere quelle conoscenze, anche politiche, esistenti (e l’esperimento liberal-democratico, per ricaduta cognitiva,  è fra queste).  Pertanto, esistono uomini cattivi,  per definizione,  che rifiutano la conoscenza-virtù. E dunque il dialogo. Dai quali dobbiamo difenderci.  Anche con la forza, se necessaria. 
Dopo di che, con l' "amico americano" consapevoli delle nostre differenze, e comunque coscienti di averle argomentate bene, ci siamo salutati. Con il calore di sempre.
Ma, avviandomi verso casa,  ho pensato:  argomentare bene,  può bastare?        

Carlo Gambescia